di Claudio Vergnani - pagine 528 - euro 15,00 - Gargoyle
Pensavamo di aver smesso di uccidere i vampiri, ma abbiamo ricominciato a farlo. Ora che è accaduto quel che è accaduto, è quasi un mestiere. Non devi più nasconderti per cacciarli. Sono reietti, emarginati, abbandonati dai loro stessi Maestri. Le retrovie di un esercito allo sbando. Non c’è posto per loro. Ma nemmeno per noi. E la loro presenza giustifica in qualche modo la nostra. La loro mancanza di un futuro si intreccia con la consapevolezza della nostra quotidianità di speranza, e le loro azioni prive di un fine si sovrappongono al nostro gesticolare che è ormai soltanto uno stanco, sfiduciato reagire senz’anima.
Loro e
noi. I vampiri e i cacciatori. Una battaglia senza onore né gloria tra
disperati, dove in mezzo stanno le prede innocenti. E forse c’è più
colpa in noi, che possiamo scegliere, che in loro, schiavi di una sete
che non possono spegnere. Loro sono assassini nati, noi l’estrema
difesa, sempre sull’orlo dello sfascio. Ma in qualche modo ambiguo e
discorde, nell’inconsapevolezza innocente dei semplici, siamo anche il
fioco brillare di una speranza di un imprevedibile, brevissimo,
insperato momento di giustizia (dalla quarta di copertina)
So che qualcuno di voi reputa ipocrita recensire alcuni autori
italiani e altri no. Io, semplicemente, me ne frego e lo faccio solo
quanto lo ritengo opportuno.
Claudio Vergnani è uno scrittore. Che sia italiano, inglese,
lituano o vietnamita è un dettaglio marginale. Scrive bene, ha fantasia,
proprietà di linguaggio e duttilità. Lo reputo, senza giri di parole,
una delle migliori new entry dell'ultimo decennio.
Voi tutti sapete quanto ho adorato il suo romanzo d'esordio, "Il 18°
vampiro". Leggere il suo seguito è stata un'esperienza altrettanto
gratificante, seppure diversa. E in questo c'è anche il mio rinnovato
interesse per Claudio: sarebbe stato semplice ricalcare il suo primo
romanzo, un successo a tutti gli effetti, effettuando solo qualche
piccolo cambiamento. Forse sarebbe stato anche più semplice: i
lettori-fan vogliono continuità, non dinamismo. Mi perdoneranno, ma è
così.
Vergnani ha invece preso una saccocciata di coraggio è ha impostato Il 36° giusto in modo alquanto diverso, pur seguendo il senso di
stretta continuità cronologica del libro d'esordio. È così che
ritroviamo buona parte dei vecchi protagonisti, in primis Vergy e
Claudio, calati però in un contesto diverso, che sorprende, spiazza e
affascina.
"Il 36° giusto" è innanzitutto strutturato in tre-quattro parti
strettamente legate l'un l'altra, eppure a sé stanti. Come se fossero
dei racconti - meglio ancora delle novel - autoconclusivi eppure
concatenati da un filo d'Arianna non invasivo, ma vincolante. Ciò
permette di usufruire del libro, se questo è il termine giusto, come
meglio preferite. Potete leggerlo tutto d'un fiato, oppure leggerne una
parte, fare una pausa e poi tornarci a bomba.
Di solito non commento la struttura dei romanzi ma in questo caso mi
pareva giusto farlo. Beh... l'ho fatto. Andiamo oltre.
Il contesto in cui Claudio ci porta lo si può dedurre dalla (non)sinossi
di inizio articolo. I vampiri che alla fine del primo libro hanno
compiuto una discreta strage nel modenese si sono ritirati nei loro
rifugi, lasciandosi dietro solo i più stupidi e gli inetti, creature più
simili a zombie romeriani che non ai fascinosi non morti di Anne Rice.
Gli umani, e le autorità con loro, hanno fatto però in fretta ad
accettare la nuova realtà. I vampiri esistono davvero? Okay, ne
prendiamo atto. Spazziamoli via, prima che decidano di ciucciarci come
Calippi. A dire il vero questi mostri reietti e derelitti non sono
nemmeno difficili da (ri)ammazzare, non con la luce del giorno. Ed è
così che Vergy e Claudio, i due antieroi più antieroi della storia
dell'horror, trovano un nuovo lavoro - alle dipendenze! -, gli
ammazzavampiri a cottimo.
Avete presente Van Helsing? Ecco: dimenticatevelo. Non ha NULLA da
spartire coi protagonisti di questo romanzo. In primis perché i nostri
sono dei disperati, dei nullatenenti, disillusi dalla vita e spinti solo
dalla necessità di far qualcosa, non dall'etica o dalla morale. Almeno
in apparenza. In secondo luogo perché ammazzare vampiri non ha davvero
nulla di romantico. Vuol dire affondare i gomiti nel sangue, nella merda,
strappare teste e far saltare carcasse ambulanti.
Ed è questo che Vergy, Claudio (ma poi anche Gabriele e altre ottime new
entry) fanno per buona parte del romanzo. Manca forse un intreccio
thrilleristico, che faceva da struttura portante de "Il 18° vampiro".
Eppure, leggendo tra le righe, si capisce che l'autore utilizza questo
seguito per costruirne una più solida e complessa che, prendetela come
un'anticipazione in anteprima, andrà a formare il terzo e ultimo
capitolo della saga.
Vergnani dà il meglio di sé nei dialoghi, spassosi, crudi,
divertentissimi e al contempo spietati. Ricordo a fatica un altro autore
che riesce a ricamare con raffinatezza delle conversazione dense di
torpiloqui, insulti e parolacce. Per me questa è arte, non si discute.
Al contempo, quando si deve calcare la mano sull'aspetto horror,
l'autore lo fa in modo brutale, rischiando più volte di causare nausea e
brividi ai lettori. Metteteci infine, ma non per importanza, alcune
considerazioni serissime sulla vita e sulla nostra “bella” società,
disseminate con sapienza qua e là, senza mai apparire demagogiche o
moralistiche, e quel che ne ricaverete è un romanzo imprescindibile, se
volete parlare, discutere e dibattere sul futuro della narrativa di
genere in questo sfigatissimo paese.
Voto: 8
[Alessandro Girola]
Incipit
Una livida alba di novembre. Il cielo scuro di nubi. Un vento aspro,
fastidioso, umido, persistente. L'idea del freddo spaventava più del
freddo stesso. Tremavi ancora prima di tremare veramente. Avevo voglia
di uscire di casa come di farmi prendere a calci nei coglioni dal mostro
di Frankenstein, che notoriamente non aveva un piedino di fata.
Avvertivo quasi una sofferenza fisica all'idea, e - se possibile - mi
sentivo ancora più stanco. Tanto stanco da meditare di donare il mio
corpo alla scienza prima ancora di morire. Il classico momento che si
vorrebbe evitare come la peste. Una delle situazioni più disagiate, sia
fisicamente sia psicologicamente. Rivelatrice di qualcosa di molto serio
che non va, in chi si trova fuori di casa invece di essere ancora a
letto. Voglio dire: se a quarantacinque anni, all'alba di una mattina
così, non sei sotto le coperte, o in ufficio di lusso o nel confortevole
interno di una limousine con autista, allora vuol dire che qualcosa
nella tua vita è andato a puttane.