di Claudio Morandini - pagine 227 - euro 14,00 - Pendragon
In un grandioso palazzo sperduto tra oscuri boschi e paludi nebbiose dimora un'agiata
famiglia che deve tutte le proprie ricchezze al loro patriarca ormai defunto, un uomo
meschino e arrogante che fece della malvagità il proprio credo. Anche a distanza di anni
dalla morte del vecchio "nonno" il suo potere e la sua fama continuano ad
influenzare la vita di figli e nipoti. Tradimenti, misteri, tresche amorose, incesti e
perfino omicidi... non manca nulla in questa malsana comunità.
Mai una saga famigliare era stata così appassionante come quella narrata in "Le
larve", un piccolo capolavoro creato dal talentuoso Claudio
Morandini. Una prosa elegante e raffinata, quasi barocca, accompagna il lettore
in una storia avvincente che strizza l'occhio al gotico, al grottesco, al noir, ma anche
alla commedia. Un libro arguto, scritto con grande intelligenza, che meriterebbe, senza
esagerare, una diffusione planetaria! Da leggere assolutamente.
Voto: 9
Incipit
Uscire dalla giovinezza e scoprirmi vecchio è stato come svegliarmi da un lungo
sogno minaccioso.
L'incipit - del sogno - coincise con un'apparizione del nonno alla finestra della mia
camera. E' il mio primo ricordo, credo. Una notte, poco prima dell'alba - avrò avuto due,
tre anni -, ancora inviluppato nelle coperte, apro gli occhi e sbircio tra le tende che
danno sui grandi alberi del parco. Di solito, a quell'ora, agli ultimi canti degli uccelli
notturni si sommano i primi dei passeri, dei fringuelli e dei merli, e quegli alberi
brulicano di litigi, corteggiamenti, affanni e peana di piacere; ma stavolta dalle chiome
nere giunge solo il silenzio assoluto - e forse è stato proprio questo silenzio
inaspettato a svegliarmi.
C'è una figura immobile, fuori della finestra - ne distinguo la sagoma scura contro i
primi chiarori lontani -, e guarda dentro, premendo la faccia sul vetro appannato
dall'alito. Rimago immobile anch'io, per lunghi minuti, finchè la mano di quell'uomo non
si alza ad appoggiarsi al vetro, aspetta, come per forzarlo con delicatezza. Mi appare
subito come il gesto di un predatore paziente, e quando alcuni anni più tardi leggerò,
in romanzi divorati di nascosto, di non-morti in attesa dietro a finestre chiuse, non
potrò fare a meno di considerare che anch'io ho assistito a una scena analoga.
In qualche modo, basandomi su qualche dettaglio che ora non rammento più, ho quasi subito
riconosciuto in quell'ombra la figura del nonno - il mio nonno paterno, il terribile
patriarca. Ora posso immaginare che fosse proprio lui, al rientro da uno dei suoi
vagabondaggi notturni, e che si fosse inerpicato fino alla mia camera - la stanza si
affacciava al primo piano, e solo salendo per i rosai rampicanti che da quel lato
rivestivano il palazzo, o levitando, si poteva giungere alle finestre - per vegliare sul
sonno del suo erede, cioè su di me, futuro erede non solo delle sue sostanze, ma anche di
molte parti del suo essere.
Lo fisso a lungo, mentre lui fissa me - o almeno, questo è il ricordo che si è edificato
nella mia immaginazione in tanti anni. Poi mi costringo a chiudere gli occhi, come per
scacciarne la figura, e li tengo serrati finchè non odo ricominciare, con timidezza
insolita, il cando degli uccelli sugli alberi.