Il signore delle mosche

di William Golding - pagine 239 - euro 5,46 - Oscar Mondadori

Durante un conflitto mondiale, un gruppo di ragazzini inglesi si ritrova abbandonato su di un’isola tropicale, disabitata, dove il loro aereo è precipitato. Unici supersiti, cercano di riorganizzare la situazione, per costruire una parvenza di società, con regole da rispettare e un ruolo per tutti, sotto la guida dei due leader carismatici: Ralph e Jack. Utopia che non durerà a lungo. Abbandonati a se stessi, privi di un ordine che li sappia arginare, sono infine gli aspetti più negativi della natura umana a emergere e a imporsi su tutto, rivelando la bestia che si annida in ogni persona: nessuno è innocente, neppure i bambini.

Capolavoro indiscusso di Golding, premio Nobel nel 1983, è forse la massima espressione della sua poetica e della sua visione del mondo: negativa, disincantata e priva di fiducia nella razionalità e nella bontà umana. La violenza, il male e le responsabilità dell’uomo sono al centro di questo romanzo, che ribalta le posizioni “classiche” di un Defoe o di uno Stevenson, quali si possono trovare nelle storie di uomini alle prese con la natura selvaggia, e le proietta in un mondo che ha conosciuto ormai le atrocità delle guerre mondiali e che non può più credere alle “magnifiche sorti e progressive”. La bestia, assieme al fuoco uno dei due grandi temi del romanzo, è ciò che minaccia l’ordine e la società, così come ogni costruzione dell’uomo. Ma la bestia non è quella che arriva dal mare, o dal cielo: è ciò che si nasconde all’interno dell’uomo stesso, a ogni età, la sua vera natura, selvaggia e repressa dalla cosiddetta “civiltà”.
In uno dei suoi più celebri detti, si riassume l’intera filosofia dell’autore, che trova in questo romanzo la sua più piena espressione: «L’uomo produce il male come le api producono il miele». Voto: 8,5
[Adriano Marchetti]

Incipit
Il ragazzo dai capelli biondi si calò giù per l’ultimo tratto di roccia e cominciò a farsi strada verso la laguna. Benché si fosse tolto la maglia della scuola, che ora gli penzolava da una mano, la camicia grigia gli stava appiccicata addosso, e i capelli gli erano come incollati sulla fronte. Tutt’intorno a lui il lungo solco scavato nella giungla era un bagno a vapore. Procedeva a fatica tra le piante rampicanti e i tronchi spezzati, quando un uccello, una visione di rosso e di giallo, gli saettò davanti con un grido da strega; e un altro grido gli fece eco:
«Ohè! Aspetta un po’!»
Qualcosa scuoteva il sottobosco da una parte del solco, e cadde crepitando una pioggia di gocce.
«Aspetta un po’,» diceva una voce «mi sono impigliato.»
Il ragazzo biondo si fermò e si tirò su le calze con un gesto meccanico: per un momento la giungla prese un’aria di provincia inglese.
La voce parlò di nuovo:
«Non posso quasi muovermi, con tutti questi rampicanti.»
Chi parlava uscì dal sottobosco camminando all’indietro tra i rametti che gli graffiavano la giacca a vento sporca di grasso. Aveva le ginocchia nude grassocce, graffiate dalle spine. Si chinò, tolse le spine con cura e si voltò. Era più piccolo del ragazzo biondo, e molto grasso. Venne avanti, studiando attentamente dove mettere i piedi, e guardò in su. Aveva dei grossi occhiali.
«Dov’è l’uomo col megafono?»
Il ragazzo biondo scosse la testa.
«Questa è un’isola. Almeno, credo che sia un’isola. Quella là nel mare è una scogliera. Forse di grandi non ce n’è in nessun posto.»
Il ragazzo grasso sembrò scosso.
«C’era quel pilota. Ma non era coi passeggeri, era su nella cabina davanti.»
Il biondo guardava la scogliera strizzando gli occhi.
«Tutti quegli altri bambini,» continuò il grasso «qualcuno dev’essere venuto fuori. Qualcuno sì, non è vero?»
Il biondo si diresse verso l’acqua con l’aria più indifferente che poteva. Cercava di tenere le distanze, ma senza mostrarsi del tutto privo d’interesse. Il grasso si affrettò a tenergli dietro.
«Di grandi non ce n’è neanche uno?»
«Credo di no.»
Il biondo disse queste parole con solennità, ma poi fu sopraffatto dalla gioia di un’ambizione realizzata. Fece una capriola in mezzo al solco, e una smorfia al ragazzo grasso.
«Neanche un grande!»