Concorso di poesia horror.
Flavia Federico interpreta "Neoplasma" di Nuvoladimiele.
Ti ho visto
e ti ho voluto
di buio e cenere.
Mi hai raccolta con un respiro,
nutrita con i successivi.
Armato l’ago dei tuoi capelli
ti ho cucito le palpebre
mentre dormivi.
Non posso permettermi una collana
di viscere.
Mi accontento delle tue mani
chiuse a coppa
a mendicare sangue marcio.
Mi tratti come una malattia,
ma
ti amo come un demone.
Ci siamo arrampicati sulle antenne
Sui muri
Dietro gli specchi.
Dopo i primi agguati,
Abbiamo usato i monitor
I libri
Le memorie dei morti
E dei cellulari.
Spiccavamo un balzo
Artigli tesi,
La fame dei deserti
E le vostre perle
da mordere come confetti.
Ci chiamate spettri
Ma siamo coaguli di luce.
Ci avete dato vita,
Vi restituiremo
Cecità.
Avverti un fischio
fremito d’ovatta
labirinto.
Il brulicare d’ombre fughe
tra le piastrelle,
lievi punture d’ago nelle toppe
orfane di chiavi,
lo sfrigolare cieco delle dita
prese nei muri.
Ti sembravamo sbagli,
sbadigli.
Sfiori
l’asciutto nido
carezzi l’invisibile
uovo
deposto nel tuo sordomuto
ventre d’orecchio.
!!!
Fòlgore,
disquassa
queste mie ghiaccie chimere
perché stillino,
nubi nere,
gocce almeno tiepide
da ingravidar,
dell'oblivione,
il gorgo.
(M'è dolce il tuo ricordo,
Electra)
!
Il suo cuore
spinterogeno
non basta
al bel folgòre
che le labbra sue cinabro
promanavano!
!!
Promuta
in bianca lapide
il suo pallor ginoide
perché or che lei non c'è
!
mi manca.
Muto l’alto muro
dietro cieche finestre
cinge la città delle anime folli.
L’azzurra scintilla
con tremiti e sussulti
spegne il grido, atterra lo spirito;
ma ora che intorno è notte,
lungo linee di tristi trincee,
vieni a cercarmi
Vita mia,
e io felice, fuggo con te,
oltre il muro muto,
verso la luna
senza temerne scintilla.
Demone di legno e anima zincata,
sarcofago di vita prigioniera:
singhiozzante nella nuda terra
un urlo d’incubo sale dalla fossa
verso un cielo muto indifferente
mentre palate di supplizio
sigillano la bocca del sepolcro
e il terrore e l’orrore
sovrastano la morte che tarda ad arrivare.
Turpe, inumano
irrompe il Leviatano:
Schiuma un limbo
straziando carni di bimbo.
Io! Sono il lembo di fuoco
e canto speranze frustrate
da vomiti acri ammorbate.
Il Boia ora appare trionfante,
sbranando di bave l'infante
latrar di sciacallo ora sembra
che macina tenere membra.
E gli occhi si strizzano in mucchi
schizzando negl'imi risucchi.
Lasciate che il cielo precipiti.
Che le mie ali si schiantino
In questa amnesia:
Foto bianche d’inferno.
Sono il buio che
Sogna l’infanzia.
Di fiele
È la mia bocca;
di freddo sale
la danza.
Come crisalide sorta
da grida e sgomento
mi scaglio verso la notte.
Lasciate che il vento mi colga
E mi doni all’oblio;
lasciate che il cielo precipiti.
Con l’acciaio di una forbice
ho bucato la mia scatola cranica
per stanare l’Ape Regina
o chiunque sia, animale maledetto
che parla nella testa
riesco a entrare con un dito
cerco di toccarle il dorso ma non la trovo
allargo il buco e sanguino sogni
corro allo specchio per vedere
di che colore è, quante zampe ha
la voglia di uccidere
Rovi di spine
e fiori gialli
fra cadaveri e rovine
statue di gesso
muschio sull'uscio
cardinal seridium nel cipresso
occhi nascosti
in stanze buie
tra ragnatele di rimpianti
nebbia nei giorni
senza il mattino
gocce di pioggia alle finestre.
Libri scritti senza inchiostro
come i sogni da bambino,
chiuso in un maniero oscuro
Angelo della Morte,
onnipresente nell’infinità
istante per istante
spezzi esistenze
per natura
per sorte
per scelta.
Bellezza inesorabile,
annunci alle anime la Dimensione del Per Sempre
in Pace
o nel Fuoco.
T’invoco,
Azrael,
col sangue che sgorga dalle vene recise.
Vedo la Tua luce di tenebra
allucinazione di vermi che marciscono le carni.
Attendo:
il silenzio dell’abbandono
interrotto dai ratti,
le mie pareti intessute
di rampicanti,
indosso ragnatele
come nastri per capelli,
e attendo: il tuo passo
sulle mie architetture
contorte,
per quando entrerai lascivo
tra le mie porte
e tra le assi
del pavimento sporco
seppellirò la chiave
e ingoierò il tuo corpo.
L’assalto veloce,
la vittima langue,
la sete feroce
appago col sangue.
Accade ogni notte
e non provo rimorsi
per vite interrotte
da avidi sorsi.
Sono una creatura
crudele e altera,
è la mia natura.
Appena fa sera,
indosso il mio manto
e incido le gole.
Eppure ho un rimpianto:
non vedo più il sole.
Il verme è nelle ossa
E l’amata giace immota
Le occhiaie vuote sono
e il cremor traspare
Nausea... la morte è gentile
Ma nel mio cuore c’è
Il richiamo della tomba
Perché non son morto io?
Gli amici raggelati
Han strozzato il pianto
Ma non vedono quel ch’io vedo
L’orrore supremo
Il verme si nutre della sposa
Che nella tomba riposa!
Hai detto “due son troppi”
e un braccio mi hai rapito;
veloce e netto mi rattoppi
con durezza. Dici che son guarito!
Non patirò giammai pene:
osservo più acquietato
del ghiaccio e sopra un rene
caldo che, aspramente, chiami malato.
Ti aspetto, son deciso
per ricambiar a chi m'ama,
e infin dipingere il sorriso
sul tuo volto, con questa lama.
Il lago s’increspa,
la luna scompare,
il buio diviene.
Urla, improvvise
come foglie d’autunno,
cadono dalla vallata.
Rosseggia famelico
l’occhio
dell’atra bestia.
Un vento di ghiaccio
scherza con
brandelli di nubi
come la pece.
La creatura fiuta
l’oscurità,
membrana sottile di lugubri scene.
Il buio si accende,
la morte
ora attende.
Nel folto del bosco, una radura.
Un posto di piante morte.
Le piante intorno non sono piante
normali.
Si muovono, cacciano.
La radura è il loro cimitero.
Gli omaggi ai defunti non sono
fiori:
zampe di lepre, denti di lupo, code di ratto.
Al più amato il
dono più prezioso:
anelli d'oro, bracciale d'argento,
sottili unghie smaltate di rosso.
Improvvisamente,
quando la vita riempie nuovamente
i miei polmoni doloranti,
quando le mie dita tremanti,
si muovono alla ricerca della libertà,
quando i miei occhi anelano invano la luce nelle tenebre...
oltre le tenebre... io ricordo,
ed ora che la pioggia lava via la terra
da quel che resta di me,
ritorno,
per sempre
a casa...
... da te.
La inseguo nella radura,
incrocia i miei occhi, sbianca la faccia:
l’umana ha paura.
Inizia a caccia.
Corre a piede scalzo,
fugge da sola,
la travolgo con un balzo,
le recido la gola.
Sbrano il suo corpo riverso sulla schiena.
Com’è bianca sotto questa luna piena.
Sorgerà il sole e tornerò umano
ma la mia sposa l’ha presa il lupo mannaro.
Tra le palpebre un rivolo di sangue
scuoti il capo per scacciare l’illusione
la cosa chiamata fantasia
dentro te è mutata in perversione.
Convivevi con cruente visioni
generate dal tuo represso istinto
resistevi a sanguinose tentazioni
sedato e drogato ogni giorno.
Adesso hai spezzato la logora fune
che scindeva il sogno dall’omicidio.