Regia: Francesco Barilli
Cast: Mimsy Farmer, Maurizio Bonuglia, Donna Jordan, Mario Scaccia, Joseph Jenkins, Renata Zamengo, Nike Arrighi, Ugo Carboni, Lara Wendel, Roberta Cadringher
Soggetto e sceneggiatura: Francesco Barilli, Massimo D’Avack
Scenografia: Franco Velchi
Fotografia: Mario Masini
Musiche: Nicola Piovani
Costumi: Pietro Cicoletti
Trucco: Manlio Rocchetti
Anno: 1974
Paese: Italia
Silvia Hacherman (Mimsy Farmer) è una giovane donna della buona borghesia che cerca faticosamente, attraverso il lavoro, le amicizie e la relazione sentimentale con Roberto, di lasciarsi definitivamente alle spalle un passato fatto di morbosi e torbidi traumi infantili. Ma ogni tentativo sembra vano, e Silvia si scopre sempre più fragile e inerme, come la bambina che era e che, forse, non ha mai smesso completamente di essere. Il suo equilibrio mentale vacilla, la follia è dietro l’angolo, pronta a ghermirla; ma forse, a scatenarla, non saranno soltanto i fantasmi del suo oscuro passato.
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È vero: guardando Il profumo della signora in nero è impossibile non instaurare un chiaro parallelismo con alcune pellicole ben più note: in primis, Rosemary’s baby, con la protagonista (una Mia Farrow che tanto ricorda, quanto a capelli chiari, occhi grandi e silhouette snella e slanciata, il suo alter-ego italico, Mimsy Farmer), assediata, proprio laddove dovrebbe sentirsi più al sicuro, ovvero nel suo palazzo, dalle morbose attenzioni dei bislacchi inquilini; infine, i film di Dario Argento, che tre anni prima aveva voluto la Farmer per Quattro mosche di velluto grigio, e che si rivelano stilisticamente creditori del film di Barilli, non soltanto in termini di inquadrature ma anche di plot, con il trauma infantile che assume, in Quattro mosche (e non solo) come ne Il profumo, un ruolo centrale.
È altrettanto vero, però, che i sillogismi appena notati riguardano le sfere della suggestione e della tecnica registica, limitandosi ad essere caratteri complementari della pellicola, alla quale Barilli aggiunge componenti non solo originali e interessanti, ma anche precorritrici di un certo gusto estetico che, paradossalmente, proprio il maestro Dario Argento porterà all’esasperazione a partire dall’anno seguente l’uscita del film di Barilli, con quella pietra miliare del cinema che è Profondo rosso, e ancor più negli anni a venire, con l’espressionismo cromatico-architettonico di Suspiria (1977) e Inferno (1980).
Chiunque, infatti, guardi Il profumo della signora in nero, non può fare a meno di notare la vivace policromia che domina le scenografie, soprattutto quelle degli interni (l’appartamento di Silvia, ad esempio, è davvero variopinto, mentre la bottega del tassidermista è pervasa da intense luci verdastre e azzurrognole, ecc.) e di certi oggetti scenici (come il vaso liberty che Silvia intravede attraverso la vetrina di un negozio di antiquariato), che ricordano decisamente il gusto per il cromatismo aggressivo presente negli arredi di film come Profondo rosso nonché i colorati e vivaci giochi di luce che sono elemento strutturale in Suspiria; né può evitare di associare gli elementi architettonici e decorativi spiccatamente liberty o comunque bizzarri e ricercati che ricorrono sistematicamente nella pellicola a quelli tipici della poetica argentiana: a cominciare dall’eccentrico palazzo in cui Silvia abita, sito nel famoso quartiere Coppedè a Roma, che qualche anno dopo, non a caso, verrà scelto da Dario Argento per ambientarvi alcune sequenze del suo Inferno, all’esotico salotto di casa degli amici africani di Silvia e Roberto, ricolmo di piante che intendono riprodurre una savana in miniatura.
Insomma, se Barilli si è indubbiamente ispirato ad Argento, è tuttavia il primo ad aver accentuato, ne Il profumo della signora in nero, quei caratteri estetici che solo successivamente l’altro porterà al parossismo nei suoi capolavori.
È in gran parte questo particolare gusto estetico, che fa da sfondo alle inquietanti vicissitudini della protagonista, a rendere il film un horror psicologico sottile e raffinato: in esso il terrore, il delirio, il raccapriccio, pur restando latenti per gran parte della visione, si preannunciano in tutta la loro spaventosa carica grazie al potente linguaggio antifrastico che promana dalle sequenze, dove i colori accesi e le geometrie estrose, elementi del più idilliaco dei sogni, finiscono per divenire il teatro di un incubo terrificante.
Il rovesciamento e l’ambiguità semantici sono messi in atto con perizia anche nella definizione dei personaggi secondari: essi sono spesso caricati in senso comico, taluni brutti, altri svampiti e nevrotici, altri ancora pettegoli, effeminati, prolissi; si tratta, tuttavia, di un comico che prelude al grottesco più folle e inquietante, anch’esso dapprima solo suggerito da un’occhiata, un gesto, una parola, ma che, nel finale, si palesa in tutta la sua potenza deformante. Emblematico, in tal senso, il personaggio del signor Rossetti, interpretato dal grande Mario Scaccia, un uomo fin troppo elegante e gentile, ma che instilla fin da subito nello spettatore la consapevolezza che c’è in lui “qualcosa che non va”, qualcosa di orrendo e di delirante.
L’utilizzo di un linguaggio fondato sull’ossimoro visivo e percettivo raggiunge tuttavia la sua acme più truce e spiazzante quando si appropria dello stile fiabesco, che colora la visione di una patina sognante, fantasiosa, ma solo all’apparenza, poiché lo spettatore ha ben chiaro che essa è solo l’involucro di una terribile follia omicida.
Interessante è la struttura del plot narrativo, che dapprima appare semplice, quasi lapalissiano, poi, all’improvviso, spiazza e depista, confondendo lo spettatore, che per tutto il resto del film si chiederà: ciò che sto vedendo è frutto della pazzia di Silvia, oppure sta accadendo davvero? È lei il carnefice, o invece è la vittima?
Bellissime le musiche – firmate Nicola Piovani; e questo è tutto dire...- anch’esse incentrate sull’antinomia idilliaco-orrorifico, ma in cui si scorge una spiccata venatura malinconica: sentimento, quello della malinconia, che è proprio del personaggio di Silvia e che, non a caso, è subito richiamato dalla foto su cui scorrono, accompagnati dalla colonna sonora, i titoli di testa; un ritratto di famiglia che ha un ruolo cardinale nel dipanarsi delle vicende. Quale? Beh, questo dovrete scoprirlo da voi.
Voto: 8
(Salvatore Napoli)
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