Why don't you play in hell?

Titolo originale: Jigoku de naze warui
Regia: Sono Sion
Cast: Hiroki Hasegawa, Gen Hoshino, Akihiro Kitamura, Jun Kunimura, Fumi Nikaidô, Tak Sakaguchi, Tomochika, Shin'ichi Tsutsumi
Anno: 2013
Nazione: Giappone
Durata: 126 minuti

TRAMA

Hirata, leader e fondatore dei Fuck Bombers, sogna una carriera di regista e, insieme con i suoi collaboratori, passa il tempo a fare riprese in strada. In una di queste sessioni si imbatte in uno yakuza appena sfuggito a una carneficina e questo incontro sarà l’inizio di una vorticosa serie di eventi che lo porteranno a coronare il suo sogno.
Nel mentre i clan Muto e Ikegama danno vita a un’escalation di violenza al centro della quale si muove la giovane Mitsuko, figlia del boss Muto e futura star del cinema.

RECENSIONE

Figlio del riconosciuto debito contratto da Tarantino con Takashi Ishii, omaggiato dal regista persino col nome della sua eroina giappo/cinese O-Ren Ishii, Why don’t you play in hell? restituisce quel debito con l’aggiunta degli interessi. Se Tarantino spostava l’asse della rappresentazione calcando pesantemente la mano sulla vendetta e mantenendo intatto il carisma della protagonista pur coniugando il personaggio di lei con l’icona delle arti marziali per eccellenza, il grande Bruce Lee, Sono Sion aggiunge al tutto le rappresentazioni iperboliche di cui il suo cinema abbonda e chiude il cerchio abbandonando il cliché della vendetta a favore di una generica mattanza yakuza style.

Tutto comincia con Hirata, aspirante regista e cantore ossessivo della poesia della pellicola, ormai trafitta a morte dalla crisi economica e dall’avvento del digitale. Il suo desiderio di fama e la volontà di vedere acclamati i suoi sforzi lo inducono a inseguire i suoi attori per la strada e a coinvolgere ignari passanti nelle sue rappresentazioni. Quando la sua strada incrocia quella del clan Muto l’unica sua possibilità di vedere realizzato il suo sogno coinciderà col desiderio del boss Muto di omaggiare la moglie con il primo film da protagonista della figlia Mitsuko.
Ma Mitsuko è una ragazza dagli atteggiamenti un tantino aggressivi e la parte che è chiamata a interpretare la vedrà impegnata a macellare con una katana tutto il clan rivale.

Non è difficile ravvisare l’ombra del regista stesso nella figura di Hirata, appassionato amante della pellicola e celebratore della morte del cinema nipponico. La passione con cui insegue i suoi sogni è tale da superare ogni ostacolo, anche se questo si raffigura sotto le spoglie di un manipolo di yakuza in kimono che si batte con un altro clan interamente vestito Armani, in un perfetto Anime style.
Non mancano certo gli omaggi, come la suggestiva immagine di Tak Sakaguchi che emula Bruce Lee, ma la perla che spicca su tutto è il messaggio lasciato da Hirata in un ideale continuum che parte da Fukasaku e finisce con Tarantino: il cinema è la sola cosa in grado di celebrare la vita.
Secchiate di emoglobina e arti volanti tranciati di netto dalla affilata katana del regista fanno da cornice a questa nuova eccessiva rappresentazione di Sono Sion, il quale non perde occasione di ribadire che il cinema giapponese così come lo conoscevamo è ormai alla fine, e che solo la commistione dei generi e l’uso massiccio dell’ironia possono dare nuova linfa alla settima arte.
Gli yakuza di Sono Sion sono ancora più macchiettistici di quelli già parecchio sopra le righe di Kitano e, nel raccontare di donne che ammazzano con un coltello da cucina interi contingenti di killer mandati a uccidere i loro mariti, la cifra stilistica si ripropone come celebrazione di un femminile ampiamente raffigurato dai mille Manga e Anime di nuovissima generazione.
La buonissima prova di tutto il cast, con una menzione speciale per il sempre efficace Jun Kunimura, esalta appieno la rappresentazione pirotecnica e a tratti fumettistica di Sono Sion, il quale mantiene saldo il timone nonostante la tentazione forte di affogare tutto nel sangue e lasciare che lo spettatore tragga da sè le sue conclusioni.
Voto: 7
(Anna Maria Pelella)