Regia: Christophe Gans
Cast: Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussolier, Eduardo Noriega, Myriam Charleins, Audrey Lamy, Sara Giraudeu, Jonathan Demurger
Produzione: Francia, Germania
Anno: 2014
Durata: 110 minuti
Nell’affrontare una nuova trasposizione cinematografica della nota favola di Madame de Villeneuve (1740), Christophe Gans si è dovuto misurare con un predecessore assai ingombrante. Il film di Jean Cocteau del 1946, con Jean Marais e Josette Day, è giustamente considerato un capo d’opera del cinema francese del dopoguerra, e non poteva non costituire un punto di riferimento per il regista, il quale, da ex critico militante, non si perita di azzardare riferimenti alti. Oltre a Cocteau, Gans cita Powell & Pressburger nonché il cinema del Fronte Popolare, quello di Marcel Carné e Jacques Prévert, che ha prodotto capolavori come “L’amore e il Diavolo” (1942) o “Mentre Parigi dorme” (1946).
Nelle intenzioni, insomma, il risultato avrebbe dovuto essere ben diverso dalle reinterpretazioni del patrimonio favolistico europeo offerte dal cinema americano negli ultimi anni, proponendo al pubblico un’alternativa che fosse più vicina alle radici culturali del cinema francese. Invece qualcosa non ha funzionato a dovere, forse perché durante la stesura della sceneggiatura Gans si è ritrovato al fianco Sandra Vo-Anh invece di Prévert.
La favola, basata alla lontana sulla storia di Amore e Psiche narrata da Apuleio, ha fatto la gioia di legioni di psicoanalisti, che hanno avuto il loro bel da fare tra il complesso paterno di Belle e i vari sottintesi di ordine sessuale, e ha attirato anche l’attenzione di Angela Carter che ne ha offerto due irriverenti versioni “femministe” ne “La camera di sangue”. Gans decide però di ignorare ogni sovrastruttura e di attenersi alla fiaba originale (nella versione di Madame de Beaumont del 1756), narrando la storia di un ricco mercante che, caduto in disgrazia dopo il naufragio della sua flotta, si ritira a vivere in campagna con la famiglia. Un giorno egli smarrisce la strada di casa e si ritrova nel castello della Bestia, dove viene omaggiato con ori e gioielli. Durante il viaggio di ritorno, il mercante commette però l’errore di recidere una magnifica rosa, attirandosi l’ira della Bestia che gli impone di consegnarsi a lui, pena la morte della sua famiglia. Venuta a conoscenza della triste sorte del padre, Belle abbandona la casa paterna offrendosi come prigioniera al suo posto.
In questa prima parte si ha modo di apprezzare l’opulenza visiva e la propensione al gotico del regista, due fattori che richiamano le atmosfere de “Il patto de lupi” (2001), nonché i numerosi riferimenti alla grande pittura romantica del XIX secolo. Gli arabescati languori architettonici sanciscono la definitiva prevalenza del décor, asfissiante come un roseto velenoso, che diviene un elemento assai più determinante ai fini della narrazione della stessa Belle o del suo irsuto anfitrione. La funesta decadenza del castello della Bestia, maledetta per aver violato l’ordine naturale macchiandosi di assassinio, glorifica la vittoria dell’inanimato sul vivente; la modanatura di una colonna, il panneggio di un abito, l’intreccio vegetale che avviluppa le mura di pietra, sono segni assai più incisivi di qualsiasi performance attoriale. La scenografia di Thierry Flamand e gli effetti CGI, supervisionati da Louis Morin, fagocitano pulsioni e sentimenti, saziando (fin troppo) lo sguardo e tralasciando tutto il resto. Spaziando dallo Stile Impero a un Rinascimento giapponesizzato, i costumi di Pierre-Yves Gayraud confidano sulla elementare simbologia del colore (bianco, verde, blu, rosso) per sottolineare le diverse fasi dell’evoluzione di Belle, da riluttante prigioniera a innamorata, ma ancora una volta si tratta esclusivamente di un segno esteriore. E sembra paradossale che Cocteau sia riuscito a creare un’atmosfera poetica e incantata con quattro soldi, mentre Gans, con un budget assai più ricco a disposizione, non sia andato oltre un ammaliante decorativismo.
Rispetto ai precedenti adattamenti, Gans e Sandra Vo-Anh svelano il motivo per cui la Bestia è stata colpita dalla maledizione, escogitando un differente utilizzo per la freccia che Diana scagliava addosso ad Avenant nella versione del ’46. Purtroppo però, inseriscono anche uno sgangherato subplot che coinvolge il bandito Perducas e la sua banda di tagliagole, un evento che permette lo sfoggio di sapienti effetti digitali ma risulta alquanto distraente rispetto a quella che dovrebbe essere la vicenda principale. Il rapporto tra Belle e il suo ipertricotico carceriere, infatti, non è mai indagato a dovere, e nulla giustifica quel nascere di un sentimento profondo che si suppone sia il fulcro della favola. Gans si accontenta di architettare qualche sequenza suggestiva (il lago ghiacciato), che non riesce mai a essere folgorante; in questo senso, invocare come numi protettori i sublimi Powell & Pressburger non pare aver giovato al regista, il quale non è in grado di avvicinarsi ai sontuosi cromatismi, alla vena demoniaca o alle ardite sperimentazioni di “Scarpette Rosse” (1948) o “I racconti di Hoffmann” (1951).
La freddezza dell’approccio non rende un buon servizio neanche agli attori. Léa Seydoux (La vita di Adele) sarebbe anche una Belle inappuntabile, se non fosse che non ha molto con cui tenersi occupata tranne che cambiarsi d’abito con una certa frequenza, o aggirarsi per la tenuta della Bestia col piglio della turista per caso, mentre Vincent Cassel è gravemente penalizzato dagli effetti digitali.
Amputata d’emotività e carente di pathos, questa versione de “La Bella e la Bestia” conferma se non altro le potenzialità produttive del cinema europeo, ormai in grado di eguagliare quello americano per quanto concerne la “grandeur” degli effetti digitali.
Voto: 6
(Nicola Picchi)