Regia: Paul Hyett
Cast: Rosie Day, Sean Pertwee, Kevin Howarth, David Lemberg
Produzione: Gran Bretagna
Anno: 2013
Durata: 89 minuti
Angel, una ragazzina i cui genitori sono stati uccisi dalle milizie paramilitari, si prende cura delle donne obbligate a prostituirsi in una baracca fra i boschi, fino a che un evento inaspettato la porterà ad avere una reazione imprevista.
Rovistare nel mattatoio balcanico per trarne materiale da revenge-movie potrebbe apparire una mossa azzardata, strumentale e al limite del cattivo gusto. E invece la regia dell’esordiente Paul Hyett, già esperto di make-up ed effetti speciali (The Descent, Eden Lake, Doomsday), è di insospettabile sottigliezza e sensibilità, riluttante a calcare la mano sugli aspetti più exploitation e beceri della situazione. Hyett si comporta invece all’opposto, dilatando i tempi allo spasimo e addentrandosi senza remore negli impervi territori della fiaba, cruenta e sanguinaria come tutte le favole.
L’indeterminatezza dell’ambientazione, che più che un paese dell’ex Jugoslavia come Serbia, Bosnia o Croazia sembra una sintesi simbolica di ogni zona di guerra del pianeta, è la prima spallata assestata ai canoni del realismo. La seconda, e più importante, è la flagrante assurdità architettonica rappresentata dalla “Seasoning House”, una costruzione piena di intercapedini, cunicoli e passaggi segreti che rammenta più un disegno di Escher che uno scalcinato bordello per militari. La terza è la voluta bidimensionalità degli antagonisti di Angel: Viktor, il viscido tenutario del bordello, Goran e i soldati della milizia sono brutali mastini per cui la vita umana non ha valore, orchi in forma umana abituati a consumare e divorare giovani donne. L’ambientazione irrealistica, la casa come spazio fantastico in cui giocare a un nascondino mortale, gli orchi assetati di sangue, diventano così tre fondamentali elementi favolistici, che però non potrebbero espletare la loro funzione senza Angel, l’eroina della fiaba.
Angel è sordomuta, una menomazione simbolica, e comunica con le ragazze attraverso il linguaggio dei segni. Succube di Viktor, che proclama di amarla, tiene in ordine la squallida casupola, pulisce e disinfetta le ferite lasciate dai clienti sui corpi delle ragazze e, all’occorrenza, allevia le loro sofferenze con una dose di eroina. I giorni trascorrono tutti uguali, fra i corridoi bagnati da una malsana luce artificiale, e le stanze anguste con le finestre sbarrate da assi di legno. Il tempo si avvolge su se stesso, mentre lo spazio ha la fluidità della melassa. I movimenti trattenuti della macchina da presa lasciano avvertire fisicamente questa vischiosità avvolgente, che tende ad avviluppare non solo gli esseri umani, ma anche lo sguardo dello spettatore. L’incessante ripetizione dell’identico verrà infranta quando Angel deciderà di adottare lo stesso linguaggio di quelli che la circondano, la violenza, in seguito all’assassinio di una sua amica ad opera di un miliziano. E qui Hyett non si tira indietro, e apparecchia un truculento scannamento da gourmet dell’orrore, che non deluderà gli appassionati del “gore”. Subito dopo il regista infrange nuovamente i canoni del realismo, mettendo in scena una banda di militari armati fino ai denti che non riescono ad avere ragione di una bambina, mentre Angel sguscia nei condotti con l’agilità di uno scoiattolo, come fosse Alice in un Luna Park dell’orrore.
Anche senza scomodare Propp e “La Morfologia della fiaba”, è evidente come “The Seasoning House” utilizzi scientemente una struttura archetipica, con tanto di vittoria sul mostro e ritorno a casa. Non manca neanche l’oggetto magico ricevuto da un “donatore”, che però in questo caso si rivelerà fallace, una grossa chiave donata ad Angel da Viktor, una chiave che “apre tutte le porte”, forse persino quella che conduce alla libertà.
Il fatto è che, malgrado le interessanti premesse e la regia sognante ed ipnotica, il film soffre anche di qualche difetto non trascurabile. Anche se i dialoghi ridotti ai minimi termini tendono a far prevalere l’aspetto visivo, la sceneggiatura appare eccessivamente frettolosa e poco strutturata, così come risultano alquanto improbabili gli attori inglesi che simulano un goffo accento slavo. Pessimo il Viktor di Kevin Howarth, mentre appare bravissima la protagonista Rosie Day, affascinante fusione di forza e fragilità, e assai convincente Sean Pertwee nel ruolo di Goran.
“The Seasoning House” resta comunque l’esordio promettente di un regista acerbo ma con delle potenzialità, e non merita l’accanimento con cui è stato fatto a pezzi dalla critica, che lo ha addirittura, e in maniera piuttosto miope, paragonato a “Hostel” parlando a sproposito di “torture-porn”.
Voto: 6
(Nicola Picchi)