Regia: Tsukamoto
Shin’ya
Cast: Cocco (Kotoko), Tsukamoto Shin’ya (Tanaka)
Nazione: Giappone
Anno: 2011
Durata: 91 minuti
“non lo faccio per morire
ma per sentire di essere viva”
Kotoko è una madre single che, con grossa difficoltà, cerca di
allevare il suo bambino, Daijirō. Ma quando gli assistenti sociali la
sospettano di abusare del figlio, il piccolo viene affidato a sua
sorella. Kotoko inizia quindi una complicata relazione con Tanaka, uno
scrittore famoso, che la segue per strada e le entra in casa per
invitarla a uscire. Quando la relazione sembra finalmente darle una
certa stabilità, le verrà consentito di tenere di nuovo con sé Daijirō.
Ma questo sarà solo l’inizio della parabola che finirà per compromettere
del tutto l’equilibrio faticosamente guadagnato dalla donna.
Kotoko ha subito una violenza. Il figlio che lei cerca di crescere con
grosse difficoltà è frutto di quel che le è accaduto, e la sua posizione
nei confronti del bambino è di grossa ambivalenza. Se da una parte lei
teme continuamente per la sua salute, dall’altra le sue fantasie sono
incentrate sulla fragilità di quel piccolo essere che dipende totalmente
da lei. La sua inadeguatezza viene notata e il bimbo viene affidato a
sua sorella. Tanaka è uno scrittore famoso. Un giorno vede questa donna
che oscilla pericolosamente sul cornicione di un palazzo e la avvicina,
preoccupato. Ma Kotoko vede doppio e due uomini sembrano avvicinarsi a
lei, uno le sorride, mentre l’altro la aggredisce.
Kotoko ha in sé tutti gli stilemi dell’arte più pura che Tsukamoto ha
proposto sin dall’inizio ai suoi spettatori: il più evidente dei quali
quello del corpo come territorio di conflitto. In questo caso un corpo
violato dapprima, poi tagliuzzato, colpito e infine lasciato libero di
esprimere ogni sentimento che non trova la via delle parole. Poi
l’acqua, il mare come luogo di provenienza primordiale, che fa da
cornice al suo nuovo lavoro. Un mare che sottolinea, con il suo placido
incedere, la danza di una donna fragile e nel contempo eterea. Un mare
che di colpo inghiotte e cancella ogni visuale.
Questo in apertura, a sottolineare una continuità con le tematiche care
al regista, poi una pioggia ristoratrice e la stessa danza che
concludono il tutto. In mezzo ancora una storia di dolore, di quelle che
lasciano il segno e non solo metaforicamente.
A chi assisteva alla proiezione in sala il regista ha raccomandato di
spostarsi dalle prime file perché “è un film forte” e come tale in
effetti buca lo schermo.
Kotoko in realtà non è soltanto un film, è piuttosto un’esperienza
sensoriale. Viviamo lo sdoppiamento visuale della protagonista insieme a
lei, rappresentazione questa più lampante della sua ambivalenza e della
sua impossibilità di vivere nel mondo reale. Il tutto sottolineato da
una colonna sonora devastante, a opera della stessa protagonista, che in
più momenti canta creando i soli istanti di quiete in un universo
continuamente in guerra. Tanaka si innamora del suo canto e si
sottomette alle sue paure. Ma questo non è che uno degli aspetti della
storia. Altro è la continua riproposta di un ciclico infierire su un
corpo sopravvissuto a discapito dell’equilibrio mentale. Un corpo che
sanguina solo per provare a chi lo abita di essere ancora vivo. Infine
la luce in fondo al tunnel è rappresentata da Daijirō, figlio di una
violenza, ma non per questo meno amato. Il suo insistere nel
perseguimento dei bisogni primari rappresenta la difficoltà a sopprimere
la vita, anche quando la paura ne impedisce il corso normale. Tutto
questo è raccontato a sprazzi, per lo più sottolineando il senso di
precarietà emotiva della protagonista, e le sue percezioni distorte, col
semplice uso di una videocamera digitale.
Le inquadrature oblique, movimentate dalla paura e dalla impossibilità a
percepire di Kotoko fanno da sfondo a un contatto impossibile tra due
solitudini. Una Cocco in stato assoluto di grazia presta il suo volto e
il suo potentissimo canto a Kotoko, mentre Tanaka, artefice di un
cambiamento e per tanto regista dell’inizio dell’accettazione del sé
della povera Kototo, è Tsukamoto stesso, che con il suo sguardo assai
personale rende inquietanti tutti gli angoli in ombra di un
claustrofobico palcoscenico, teatro per lo più di un conflitto
irrisolvibile tra la vita, la inestinguibile spinta e restare nel mondo,
e la paura che questo possa annullarci, soltanto con un attimo di
disattenzione da parte nostra.
Kotoko è quindi una delle opere più compatte del regista giapponese e
nello stesso momento più ottimiste. Perché se è pur vero che Tanaka è
passato come un’ombra nella vita di Kotoko, la sua eredità può solo
essere quella di consentire alla donna di vedersi attraverso il suo
canto, e per suo tramite guadagnarsi il diritto all’esistenza.
Voto: 7
(Anna Maria Pelella)