Regia: James Watkins
Cast: Daniel Radcliffe, Ciaran Hinds, Janet McTeer, Liz White,
Misha Handley, Roger Allam, Shaun Dooley, Mary Stockley, Tim McMullan,
Sophie Stuckey
Produzione: UK, Canada, Svezia
Anno: 2012
Durata: 95 minuti
L’avvocato Arthur Kipps, rimasto vedovo dopo che la moglie è morta di parto dando alla luce il piccolo Joseph, viene inviato nel villaggio di Crythin Gifford per sbrigare alcuni affari legali. Il suo compito è quello di occuparsi del lascito testamentario di Mrs. Drablow, defunta proprietaria di Eel Marsh House, una villa che sorge in mezzo alle paludi. Una volta giunto sul posto, Kipps scoprirà che gli abitanti del villaggio nascondono oscuri segreti, legati alle sinistre apparizioni di una donna vestita di nero.
Seconda prova di James Watkins dopo il pregevole “Eden Lake”, “The Woman
in Black” è il primo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di
Susan Hill, che già ebbe l’onore di una trasposizione televisiva, di due
versioni radiofoniche realizzate dalla BBC, e persino di una riduzione
teatrale, che va in scena da oltre vent’anni sui palcoscenici londinesi.
E’ anche la prima produzione che possa vantare un discreto budget della
Hammer Film, risorta a nuova vita dopo i fasti degli anni ’60, che finora
si era barcamenata con opere di altalenante riuscita, tra cui si segnala
l’ottimo “Wake Wood” di David Keating. L’incontro tra la nuova Hammer e
“The Woman in Black”, era però in qualche modo già scritto, considerando
che l’autore dell’adattamento televisivo del 1989 fu quel Nigel Kneale
che fece la fortuna della vecchia Hammer con la serie di Quatermass.
Il libro è una ghost-story tradizionale, un consapevole omaggio al
genere con qualche citazione dalle opere di M.R. James, rettore del King’s
College e maestro della letteratura fantastica, e dal più illustre Henry
James, e anche la versione cinematografica non si discosta da questa
impostazione. Del resto, sul versante cinematografico strettamente “hammeriano”,
il gotico vittoriano era il prediletto campo da gioco dei classici di
Terence Fisher, dei suoi Dracula, dei suoi Frankenstein e dei suoi
Sherlock Holmes. Non sorprende dunque che il viaggio del sofferente
Arthur Kipps rammenti quello di Jonathan Harker verso il castello di
Dracula, né che gli abitanti di Crythin Gifford non vedano l’ora di
sbarazzarsi di lui, proprio come accadeva ad Harker a Borgo Pass. La
luttuosa e fatiscente Eel Marsh House, completamente isolata tra le
paludi al levarsi dell’alta marea, non ha nulla da invidiare ad altre
celebri case infestate, quali la Hill House di Shirley Jackson o la Casa
Belasco di Richard Matheson. Al suo interno vagolano fantasmatiche
apparizioni di dame in gramaglie, pallidi infanti che paiono usciti da
“Cuori strappati” (sempre M.R. James), polverose orchestrine di automi
che scrutano l’intruso con occhi vitrei. Sulla casa e su Crythin Gifford
aleggia una maledizione, legata alle fugaci manifestazioni della donna
in nero. Repentina come la Mrs. Jessel di “Giro di Vite”, a ogni
apparizione la misteriosa figura carpisce la vita di un bambino, e
toccherà al povero Kipps sbrogliare il bandolo della matassa.
Approcciarsi a un genere così codificato costringe James Watkins a una
regia di repertorio, con qualche citazione dal J-Horror per modernizzare
un po’ le cose. Con un intreccio che aspira allo statuto di classico (ma
scritto nel 1982) e una sceneggiatura convenzionale, è arduo costruire
una suspense degna di questo nome, e così il regista ripropone le
apparizioni liminari tanto care all’horror nipponico, in cui il
“revenant” s’intravede fugacemente riflesso in uno specchio, o ai
margini estremi dell’inquadratura. La scenografa Kave Quinn si richiama
agli ambienti sovraccarichi immaginati da Bernard Robinson, storico
scenografo della Hammer, ai Bray Studios o nella famosa villa di Oakley
Court. Gli interni di Eel Marsh House sono l’incarnazione esemplare
dell’horror vacui dei vittoriani: bibelot impolverati, ritratti funerei
e mobilia da brocanteur, essenziali, con l’ausilio della fotografia di
Tim Maurice-Jones, nel costruire un’atmosfera lugubre. Anche la palette
cromatica, fatta di nero, viola, cremisi e verde marcio, avrebbe fatto
piangere a Poe lacrime di commozione.
Purtroppo, in tanta reverenziale adesione ai codici del genere, si
tralascia quello che rende una ghost story immortale. Quello che faceva
la grandezza di capolavori quali “Suspense” (1961) di Jack Clayton o
“Gli Invasati” (1963) di Robert Wise, ovvero l’ambiguità dell’assunto, è
infatti del tutto latitante, a detrimento dell’incisività dell’opera.
Rispetto al romanzo, la sceneggiatrice Jane Goldman decide di rendere
Kipps vedovo prima del tempo, per motivarne maggiormente le azioni. Egli
non si risolve ad abbandonare Crythin Gifford perché è in apprensione
per le sorti del figlio, ma anche perché, in linea con le ossessioni
spiritualistiche vittoriane, confida di trovare prove certe
dell’esistenza della vita oltre la morte, nella speranza di
ricongiungersi un giorno alla moglie scomparsa. Al contempo si eleva il
body count delle vittime, ma stavolta per tener desta l’attenzione dello
spettatore, abituato a ritmi cinematografici ben più convulsi di quelli
della ghost story.
Daniel Radcliffe sarà ormai troppo stagionato per Harry Potter, ma non
lo è abbastanza per essere credibile nel ruolo del padre in ambasce. Per
fortuna è supportato da un manipolo di ottimi caratteristi, tra cui
svetta l’irlandese Ciaran Hinds (La Talpa, The Debt), nel ruolo dello
scettico Mr. Daily. Un buon risultato che piacerà agli estimatori del
genere, con l’avvertenza che da un pastiche letterario non può che
nascerne uno cinematografico.
Voto: 6,5
(Nicola Picchi)