Titolo originale: The Darkest Hour
Regia: Chris Gorak
Cast: Emile Hirsch, Olivia Thirlby, Rachael Taylor, Max Minghella, Joel
Kinnaman, Dato Bakhtadze, Veronika Ozerova, Gosha Kutsenko
Produzione: USA, Russia
Anno: 2011
Durata: 89 minuti
Sean e Bean atterrano a Mosca per vendere ai russi il progetto di un nuovo social network, ma l’idea gli viene rubata dallo svedese Skyler. Sconfortati ma non troppo, i due sprovveduti trascorrono la serata al nightclub “Zvezda”, dove incontrano due turiste americane. In quel momento si verifica un blackout, e migliaia di punti luminosi precipitano dal cielo: l’invasione è cominciata. Mentre gli alieni vaporizzano i superstiti riducendoli in cenere, il gruppo di sopravvissuti dovrà attraversare Mosca, nel tentativo di lasciare la città.
Il titolo originale “The Darkest Hour” allude alla celeberrima
definizione di Winston Churchill, il quale, com’è noto, si riferì al
drammatico momento storico in cui ebbe luogo la Battaglia d’Inghilterra,
quando i nazisti rovesciarono tonnellate di bombe su Londra. In questo
caso, almeno nelle mal riposte intenzioni dei soggettisti, un’invasione
aliena su scala planetaria dovrebbe rimpiazzare la Luftwaffe e i V2 del
III Reich, restituendo il medesimo senso di ansia e minaccia incombente.
Nel cinema americano recente, complice l’11 settembre e le inquietudini
ad esso connesse, gli alieni seminano morte e distruzione direttamente
sul suolo americano (Battle: Los Angeles, Cloverfield, Skyline, la
Guerra dei Mondi). Andando indietro nel tempo fino agli anni della
guerra fredda, l’alieno era invece trasparente metafora della minaccia
comunista e dei subdoli tentativi dell’avversario di minare le
fondamenta dell’”american way of life”. Per ironica legge del
contrappasso, nonché spiritoso ribaltamento dei canoni, nel caso de
“L’Ora Nera” è proprio la Federazione Russa a subire l’aggressione,
anche se la vicenda è narrata dalla prospettiva di un gruppo di
americani. Tutto il divertimento si esaurisce però nelle premesse
iniziali, perché lo sceneggiatore Jon Spaihts intende con tutta evidenza
candidarsi spontaneamente ai Razzie Awards prossimi venturi, con la
fondata speranza di aggiudicarsi il riconoscimento.
Emile Hirsch (Sean) prosegue il suo viaggio “Into the Wild”, ovvero
nella Mosca di Putin e Medvedev, raffigurata come un selvaggio Far West.
Straniero in terra straniera, il malcapitato si ritrova in un luogo in
cui non esistono leggi né regole, assai più alieno degli stessi
invasori, a parte qualche rassicurante pubblicità di McDonald’s ben
evidenziata. Trattandosi della Russia, non potevano poi mancare bizzarri
personaggi folkloristici, quali l’ingegnere Sergei, inventore di una
risolutiva arma a microonde, e Matvei, capo della milizia russa, che
grazie ai costumi di Varya Avdyushko sembrano prelevati di peso dal set
di “Daywatch”. Merito della produzione di Timur Bekmambetov, il quale ci
tiene ad assicurare quel minimo di colore locale che motivi la
coproduzione. Guardandosi bene dal dirigere il film, Bekmambetov affida
la regia all’ex scenografo e art-director Chris Gorak, che deve fare i
conti con la sconcertante insipienza della sceneggiatura. La geniale
trovata è quella dell’invisibilità degli alieni, idea che risale almeno
ai tempi de “La cosa maledetta” di Ambrose Bierce, targata 1893. Gli
invasori rivelano però la loro presenza ogni qual volta si trovano in
prossimità di un dispositivo alimentato con l’elettricità, sia esso una
lampadina, il faro di un’automobile, un tergicristallo o un cellulare.
Composti essi stessi di energia elettromagnetica, identificano gli
esseri umani attraverso le onde elettriche emesse dai loro corpi,
eliminandoli con letale precisione. Niente paura, perché è sufficiente
ripararsi con del materiale isolante o in un’artigianale gabbia di
Faraday per turlupinare la creatura.
Questa intuizione, oltre a consentire un sostanzioso risparmio sugli
effetti CGI, offre a Gorak la possibilità di allestire qualche buona
sequenza con un discreto livello di suspense, come quella nella Piazza
Rossa. Tanta abnegazione è però vanificata da personaggi inesistenti e
dialoghi che dovrebbero costare a Spaihts l’espulsione vita natural
durante dalla Screenwriters Federation of America. La gestione delle
dinamiche interne del gruppo di sopravvissuti si adagia nella più trita
banalità, storia d’amore inclusa, e appare davvero disarmante
l’ostinazione del cast, in primis Emile Hirsch e Olivia Thirlby, nel
voler prendere sul serio la faccenda, sgranando con convinzione
inascoltabili linee di dialogo.
Ma qual è il fine degli alieni? Anche qui l’ineffabile sceneggiatore
rifiuta di spremersi troppo le meningi: se nel “Cowboy & Aliens” di
Favreau razziavano metalli nobili come l’oro, questi ultimi sono ghiotti
di rame e di tutti i metalli che conducono elettricità, di cui si
nutrono con extraterrestre bulimia.
Sul versante esclusivamente visivo “L’Ora Nera” non delude, ma non è
abbastanza per salvare il film dal fallimento. La fotografia di Scott
Kevan (Underworld: Il Risveglio) utilizza con intelligenza la profondità
di campo, la quale, esaltata dalla visione stereoscopica, dà una forte
sensazione di spaesamento, rendendo l’esperienza vissuta dallo
spettatore più coinvolgente del consueto. Assai suggestivi anche gli
scenari immaginati dallo scenografo Valeri Viktorov; anche se costretto
dalla produzione ad includere locations turistiche (il Ponte del
Patriarca, la cattedrale del Redentore etc.), dipinge un’apocalisse
convincente. Al contrario, il design character dell’alieno funziona
finchè quest’ultimo è fascio luminescente, franando nel ridicolo quando,
infranto lo scudo protettivo, si rivela una creatura che pare uscita da
un videogame per Playstation 1. Assistendo a “L’Ora Nera” si rimpiange
persino “Skyline”, e vengono i sudori freddi pensando che l’ineffabile
Spaihts è alle prese con il “Prometheus” di Ridley Scott.
Voto: 5
(Nicola Picchi)