Titolo originale: Goyangyi: Jookeumeul Boneun Doo Gaeui Noon
Regia: Byeon Seung-wook
Cast: Park Min-young, Kim Dong-wook, Shin Da-eun, Kim Ye-ron
Produzione: Corea
Anno: 2011
Durata: 106 minuti
So-yeon lavora in un negozio di animali, e quando la proprietaria del gatto Silky muore in circostanze misteriose, non le resta che adottare l’animale. Ma le morti cominciano a moltiplicarsi e toccherà a So-yeon, assieme al poliziotto Jun-seok, risolvere il mistero.
Secondo il folklore nipponico, se il padrone di un gatto muore di morte
violenta e quest’ultimo lappa il suo sangue o si nutre della sua carne,
il grazioso animale diventa un “bakeneko”, un gatto fantasma, e in esso
s’incarna l’anima del suo proprietario, il quale in genere nutre
propositi vendicativi. Alcuni di loro, ancor più letali, si mutano in “nekomata”,
gatti con due code gemelle che dispensano la morte. Il tema ebbe tanta
fortuna nel cinema giapponese degli anni 50 e 60 da generare un vero e
proprio sottogenere, quello dei “bakeneko mono”. Del filone fanno parte
classici indiscussi quali “The Mansion of the Ghost Cat” (1958) di Nobuo
Nakagawa, “The Ghost Cat of Otama Pond” (1960) di Ishikawa e “Kuroneko”
(1968) di Kaneto Shindō.
A tale tradizione si richiama il coreano Byeon Seung-wook, ex assistente
alla regia di Lee Chang-dong, per “The Cat”, elegante variazione sul
tema resa con indubbia competenza ma senza innovazione alcuna, né di
forma né di sostanza.
La costruzione del personaggio della protagonista si rivela
convenzionale già in fase di scrittura. Com’è abituale in un certo tipo
di horror, l’eroina soffre di un qualche tipo di menomazione di ordine
psicologico, che dovrà superare per uscire indenne dallo scontro con le
forze avverse, soprannaturali o meno che siano. In questo caso il
problema di So-yeon si chiama claustrofobia. La ragazza non sopporta di
essere rinchiusa in luoghi chiusi, al punto da avere rimosso tutte le
porte dal proprio appartamento, e naturalmente le morti avvengono in
luoghi in cui mai si sognerebbe di mettere piede, quali ascensori,
armadi, sgabuzzini e persino il forno crematorio di un rifugio per
animali abbandonati. Purtroppo non sapremo niente del suo trauma
pregresso, le cui origini vengono ignorate. Si tratta di un’astuzia di
sceneggiatura per farle stabilire una connessione con la bambina
fantasma, che diventa una sorta di specchio della protagonista. Quello
che importa è che, in una Seoul innevata come il candido manto di Silky,
una terrorizzata So-yeon sarà costretta ad affrontare le sue paure più
intime per venire a capo dell’infausta sequela di decessi.
Il secondo stereotipo, che discende direttamente dal primo, sta nelle
difficoltà quasi insormontabili incontrate dalla protagonista nel
gestire i rapporti umani, sia con il poliziotto Jun-seok, impacciato
corteggiatore, che con l’anziano genitore, ricoverato in una clinica
psichiatrica. So-yeon tende infatti a ritrarsi, a sfuggire, ad evitare
qualsiasi tipo di contatto per troppa insicurezza. Per buona sorte un
obbligato corollario di tale impostazione è la funzione guaritrice
attribuita alla catarsi, e si può essere ragionevolmente certi che entro
la fine del film l’eroina non solo svelerà l’arcano, ma troverà anche
l’amore.
Malgrado una sceneggiatura di disarmante ovvietà, “The Cat” ha altre
frecce al proprio arco, a cominciare da un’esemplare ricercatezza
formale, evidente nei movimenti felpati della macchina da presa e
nell’uso della profondità di campo, nonchè nella buona costruzione delle
scene prettamente orrorifiche. Tali sequenze, a cominciare dalle
repentine manifestazioni del fantasma di Hee-jin, la bambina con gli
occhi di gatto che si accompagna a Silky, conservano infatti una
funzionale efficacia pur essendo pesantemente indebitate con l’ormai
defunto J-Horror (in primis “Dark Water”). Lasciato del tutto in ombra è
invece il senso di potenziale minaccia, mistero o sensualità che alcuni
associano al sinuoso felino. Paradossalmente, i gatti di “The Cat”
comunicano la stessa inquietudine di quelli di una pubblicità di cibo
per animali, con tanti saluti al “bakeneko” del sol levante. Come nella
maggior parte dell’horror coreano, il raccapriccio si unisce ad un
malinconico patetismo di fondo, e non si può che prendere le parti di
Hee-jin e della sua masnada di felini di fronte alla noncurante crudeltà
degli inquilini dei Dong-Ha Apartments.
Park Min-young è una So-yeon adeguatamente nevrotica e spaventata,
soprattutto quando rigurgita batuffoli di pelo, e Kim Dong-wook (Romantic
Heaven) timido e imbranato al punto giusto. Quest’opera seconda di Byeon
Seung-wook (Solace) non sarà una pietra miliare, ma è comunque
preferibile all’altro horror-fotocopia dell’estate coreana, “White: The
Melody of the Curse” dei fratelli Kim.
Voto: 6,5
(Nicola Picchi)