Titolo originale:
Pintu terlarang
Regia: Joko Anwar
Cast: Fachry Albar, Marsha Timothy, Ario Bayu, Tio Pakusodewo,
Henidar Amroe, Verdi Solaiman, Putri Sukardi, Ade Firza Paloh, Atiqah
Hasiholan
Nazione: Indonesia
Anno: 2009
Durata: 115 minuti
Gamir è un affermato scultore. Le sue opere, raffiguranti donne in gravidanza, sono molto apprezzate e le sue mostre vanno sempre benissimo. Un giorno si accorge di una scritta che invoca aiuto sul muro della sua casa. Scopre presto di essere l'unico a vederla e si convince che qualcuno stia chiedendo direttamente a lui di fare qualcosa. Da quel momento in poi la sua vita comincia a sfaldarsi e molte delle sue convinzioni si rivelano fallaci.
David Lynch oltre ad essere un grandissimo regista è senz'altro una
potente fonte di ispirazione per giovani menti dotate della giusta
visionarietà. Nel caso di Joko Anwar, Lynch funge bene da detonatore per
il lento sgocciolio di angosce mai sopite, cui il grande cineasta ha
spesso dato asilo, e che qui trovano una degna espressione, sia pure
derivativa, ma senza dubbio efficace.
Joko costruisce, con maestria e con un pizzico di arroganza, un universo
talmente sbieco da risultare scivoloso, e del tutto alieno alla logica
consequenziale con cui solitamente si raccontano i fatti.
Gamir vive una situazione reale assai complicata, però è anche
avviluppato dalle sue stesse fantasie, e pertanto la complicazione
diviene esponenziale. Immaginate un delirio che si srotola in un mondo
felliniano, in cui tutto quel che si vede potrebbe esser vero solo in
alcune circostanze, e mai che queste si presentino allo spettatore nella
banalissima rappresentazione cronologica in cui, si spera, saranno
avvenute. Quindi abbiamo un uomo che oggi soffre di impotenza e ha un
problema morale circa il suo lavoro. In passato la sua situazione
sentimentale si è complicata a causa di un aborto cui ha dovuto far
fronte con la sua attuale compagna. Da allora niente figli e niente
sesso.
Ma questo è solo l'inizio. O forse la fine, magari è a metà della storia
che subentra il problema dell'impotenza, ma quello delle espressioni
artistiche di successo che nascondono un segreto è di certo un problema
precedente. O no?
Vabbè. Fatto sta che Gamir a un certo punto della sua vita vede delle
scritte sui muri che invocano aiuto. Si convince di essere il
destinatario dell'appello e si mette sulle tracce della persona in
pericolo. Che si scoprirà essere un bambino. Da questo momento in poi,
come nella migliore delle sceneggiature di Lynch, il mai troppo osannato
"Mulholland Drive", scatta un interruttore e il bambino diviene il
centro della scena. Una scena che pare abitare, oltre che il suo
abituale scenario, anche una stanza chiusa a chiave dietro la quale
Gamir non sa cosa ci sia. Sua moglie gli ha chiesto di fidarsi di lei e
lui lo ha fatto. Ma tutti sappiamo cosa capitò alla moglie di Barbablù
quando volle aprire la porta proibita. Inoltre sua madre e i suoi amici
non sono certo belle persone, e invitarle per Natale può essere una
buona occasione di riconciliazione. L'atmosfera natalizia invita spesso
alla pacificazione e al seppellimento di vecchi rancori, oppure al
seppellimento di qualcos'altro, magari.
Joko Anwar in primo luogo ci mostra senza nessuno sforzo quanto possa
esser considerato attualmente vitale, sia pure solo in alcuni limitati
casi, il cinema indonesiano. La maestria con cui mette insieme materiale
che avrebbe potuto trovar posto in più di una sceneggiatura, è solo
l'inizio del suo ottimo lavoro. Oltre la bravura tecnica nel mostrare
una situazione ai limiti dell'indescrivibile, emerge a mano a mano anche
la sua buona capacità descrittiva che reca l'impronta di un maestro e ne
omaggia con dotata passione le migliori rappresentazioni.
La visione di Lynch trasuda letteralmente da ogni fotogramma di questo
accuratissimo lavoro, e senza che mai si abbia anche solo il sospetto di
un plagio. Il tutto ha il delicato sapore di un omaggio che, sostenuto
da una buona abilità e da un occhio assai dotato per i particolari,
renderebbe sicuramente fiero il maestro.
Ogni dettaglio è curato al massimo e se la fotografia pulita reca in sé
la traccia di un comparto tecnico competente, è nei movimenti di
macchina obliqui e nel continuo insinuare ai limiti del campo visivo che
si nota l'impronta del talento per le rappresentazioni non lineari. Il
lavoro con gli attori supera di gran lunga la media indonesiana in tal
senso, in genere vittima di un eccesso di espressionismo e di
esagerazioni ai limiti del grottesco. Qua tutto è misurato, persino gli
sguardi e la recitazione diviene spontanea e naturale.
Gamir è l'occhio stesso dello spettatore, che indugia ai limiti di una
porta di cui non possiede la chiave. E se la chiave è in realtà in
possesso soltanto del regista, non è affatto detto che egli voglia
condividere la sua conoscenza con lui e con chi lo guarda cercare dentro
e fuori di sé un senso che alla fine forse neanche c'è. La continua
ricerca di Gamir non è altro che la faccia nascosta del nostro stesso
desiderio di capire i meccanismi che regolano la nostra vita. Molto
spesso senza neanche aver coscienza del fatto che aprire un meccanismo
potrebbe in alcuni casi significare la sua rottura. Gamir, come chiunque
al suo posto vuole solo sapere, e tenta a più riprese di salvare un
bambino, dentro lo schermo vuoto di proiezioni mai comprese, e dietro
una porta il cui accesso gli è rigorosamente proibito.
A questo punto il tutto è demandato alla volontà dello spettatore di
leggere tra le righe di quel che viene mostrato e, infine decidere di
prender per buona una sola delle visioni proposte, a totale discapito di
tutte le altre, e col segreto rimpianto di averle dovute abbandonare per
strada.
Voto: 7
(Anna Maria Pelella)