Regia: Hideo Nakata
Cast: Aaron Johnson, Imogen Poots, Hannah Murray, Daniel Kaluuya,
Matthew Beard, Megan Dodds, Richard Madden
Produzione: Gran Bretagna
Anno: 2010
Durata: 97 minuti
William apre una stanza in una chatroom, permettendone l’accesso a quattro coetanei incontrati on-line: Jim, il quale soffre di depressione e attacchi di panico dopo essere stato abbandonato dal padre; Mo, turbato dai desideri che prova nei confronti della sorella undicenne del suo migliore amico; Emily, che segretamente detesta la sua famiglia che le impone un modello di perfezione difficile da raggiungere; Eva, aspirante modella che odia l’ipocrisia e l’egocentrismo del proprio ambiente. Quello che i ragazzi non sanno, è che William è un adolescente disturbato e manipolatorio, che ha in mente un gioco dalle conseguenze pericolose.
Presentato a Cannes nella sezione “Un Certain Regard”, “Chatroom”,
secondo film di Hideo Nakata realizzato al di fuori del Giappone (il
primo era “Ring 2”), è tratto da un testo teatrale di Enda Walsh, la
quale lo ha adattato per il grande schermo. Trattandosi di una commedia
e non di una sceneggiatura originale, ci si aspetterebbe un’attenzione
ai dettagli e alle psicologie dei personaggi che qui è completamente
trascurata, o si risolve in raccordi fin troppo sbrigativi e elementari.
Eppure, visto l’argomento, era un punto di primaria importanza, la cui
assenza indebolisce in maniera considerevole l’impianto del film e il
suo atteggiarsi a thriller psicologico. Con protagonisti che sono poco
più di macchiette abbozzate, la responsabilità non può dunque essere
addebitata al povero Nakata, il quale cerca di cavarsela al meglio con
lo scarso materiale a disposizione. Resta da capire perché una
produzione inglese abbia deciso di affidarsi a uno dei padri fondatori
del J-Horror, forse a causa dell’argomento del film, che investe
tematiche abbondantemente esplorate nel cinema nipponico, quali
l’alienazione causata dall’abuso delle nuove tecnologie, il disagio
adolescenziale e il suicidio. Inutile dire che di tali opere “Chatroom”
non è che una pallida copia, di esangue approssimazione.
Detto questo, non tutto è da buttare via, soprattutto per la scelta di
scindere i due piani di realtà, quello reale e quello virtuale. L’idea
non è certo originale, ma serve a mettere in risalto due punti di forza:
la sofisticata fotografia di Benoit Delhomme e la scenografia di Jon
Henson, che sceglie locations poco esplorate come Camden Town. Se la
Londra della quotidianità è anemica e slavata, una sinfonia di
elegantissimi grigi perlacei e bianchi avorio, l’universo del
cyberspazio è saturo, pop e coloratissimo. L’ambiente in cui si aprono
le stanze delle diverse chatroom ricorda un grande albergo, di classe ma
notevolmente decaduto, con quel giusto livello di degrado che tanto
piace ai fotografi delle riviste di moda. Ogni stanza riflette la
personalità di chi l’ha creata, e naturalmente anche le incarnazioni
virtuali dei personaggi sono differenti. In questo mondo alternativo,
William si muove con la sicurezza del demiurgo e dell’implacabile
artefice dei destini altrui, in questo caso quelli degli sprovveduti che
cadono nella sua trappola, fatta di finta comprensione e di fasulle
profferte di amicizia. Si intuisce che stiamo assistendo a un gioco che
William ha giocato molte volte, sempre con conseguenze letali, anche se
le ragioni del suo comportamento non sono esplicitate. Si preferisce
restare nel generico lasciando intuire un marcato autolesionismo,
l’ostilità verso la madre, una scrittrice di successo modellata sulla
falsariga di J.K. Rowling, e il senso di inferiorità provato nei
confronti di Ripley, il perfettissimo fratello maggiore, ma sono
annotazioni buttate là tanto per fornire uno straccio di motivazione,
senza che vengano mai percepite come davvero necessarie. Ugualmente
bruschi sono gli snodi narrativi, quando Mo, Emily e Jim cominciano a
mettere in atto i subdoli inviti di William a liberarsi dalle proprie
frustrazioni, e decidono di seguire i suoi tutt’altro che disinteressati
consigli. Abolite le fasi di transizione, ci si ritrova catapultati in
un finale troppo affrettato, in cui William, che con fiuto da predatore
ha individuato l’anello più debole, cerca di chiudere la partita, mentre
gli altri tentano di fermarlo.
La regia di Nakata è di estrema eleganza formale, da illustratore di
lusso, e il regista dimostra una pignola meticolosità che avrebbe
meritato una sceneggiatura all’altezza, concedendosi qualche
ammiccamento nella scena del suicidio della bambina giapponese. Molto
indovinate e giustamente agghiaccianti le animazioni in plastilina (di
Daniel Stirrup), in cui William sfoga tutta la propria ostilità. Pollice
verso, invece, per la colonna sonora del solitamente ottimo Kawai Kenji,
che sottolinea intrusivamente e in maniera ridondante la maggior parte
dei passaggi. Gli attori sono tutti sopra le righe, tranne l’eccezionale
Aaron Johnson (Nowhere Boy, Kick-Ass) che, a parte la capacità di
cambiare completamente da un film all’altro, è sulla strada giusta per
diventare l’Edward Norton della sua generazione.
Voto: 6
(Nicola Picchi)