Titolo originale:
Bulshin jiok
Regia: Lee Yong-joo
Cast: Nam Sang-mi, Ryu Seung-ryong, Kim Bo-yeon, Shim Eum-gyeong,
Mun Heui-gyeong, Jang Yeong-nam
Produzione: Corea del Sud
Anno: 2009
Durata: 104 minuti
Hee-jin riceve una telefonata dalla madre, la quale la avverte dell’improvvisa scomparsa di So-jin, la sorella tredicenne. Mentre la madre, animata dal fanatismo religioso, si limita a pregare per il suo ritorno, Hee-jin si rivolge alla polizia. Il detective Tae-hwan, incaricato delle indagini, è convinto che la ragazzina sia semplicemente scappata di casa, ma ben presto nel palazzo si verificano una serie di bizzarri suicidi che coinvolgono persone legate a So-jin.
Esordio alla regia di Lee Yong-joo, già assistente alla regia di Bong
Joon-ho per “Memories of Murder”, “Possessed” è un’opera riuscita che si
candida al ruolo di miglior horror coreano del 2009, in parte per le sue
indubbie qualità, in parte per l’effettiva mancanza di concorrenti
all’altezza. Il genere sembra infatti essere in caduta libera, e l’anno
passato ha portato solo risapute variazioni sul tema come “A Blood
Pledge” e “Yoga Class”.
L’idea sarebbe quella di svincolarsi dalle consuetudini del K Horror
alla “Whispering Corridors”, per accostarsi ad una forma più adulta,
articolata e complessa. Modello e fonte di ispirazione è con tutta
evidenza il cinema perturbante di Kurosawa Kiyoshi, più volte citato nei
tagli d’inquadratura o nella costruzione delle sequenze. Il riferimento
costante limita l’originalità dell’insieme ma, anche se Lee non ha
l’imprevedibilità del suo modello né tantomeno i suoi peculiari
movimenti di macchina, il risultato è tutt’altro che disprezzabile.
Il film è ambientato quasi esclusivamente in un condominio, meno
fatiscente di quello di “Sorum” ma altrettanto inquietante. Un
condominio-alveare, un corpo fisico che ingloba i protagonisti del
dramma e al cui interno si consuma l’evento che darà il via alla catena
dei suicidi. L’anonimo palazzone di periferia è ormai luogo deputato
dell’horror di ambientazione urbana, ideale contenitore in grado di
catalizzare angosce, sensi di colpa e ossessioni individuali, e Lee lo
esplora minuziosamente con la macchina da presa come fosse un
cartografo, iniziando dagli appartamenti dei suicidi fino alle cantine,
per concludere con il tetto dell’edificio, che è lo spazio in cui si
scioglierà l’enigma.
Le misurate concessioni al coté sovrannaturale della vicenda (i
talismani, la gru) lasciano intuire che le intenzioni del regista
risiedano altrove, ovvero nell’impaginare quasi un commentario sociale
sull’incidenza delle credenze religiose, dal cristianesimo evangelico di
matrice protestante allo sciamanesimo, nella Corea contemporanea, e
sulle conseguenze dell’ossessione religiosa portata ai limiti estremi.
In questo senso “Possessed” è assimilabile a film quali “The Exorcism of
Emily Rose” di Scott Derrickson o al “Requiem” di Hans-Christian Schmid,
che narravano, riferendosi ad un episodio realmente accaduto, la storia
di Anneliese Michel, una ragazza epilettica che, creduta indemoniata dai
parenti, muore per le conseguenze dei ripetuti esorcismi.
Lo sciamanesimo tradizionale è tuttora molto presente nella cultura
coreana, ed è praticato prevalentemente da donne (Mudang) discriminate
socialmente, appartenenti alle classi povere. Naturalmente si trova a
convivere con fedi, diciamo così, d’importazione quali il cristianesimo,
che riscuote grandi consensi. L’innesto di una religione relativamente
recente su una preesistente ha condotto a forme ibride di sincretismo
religioso e, come ebbe a dire uno studioso coreano: “La Corea ha il
cristianesimo come sua arteria, ma lo sciamanesimo come suo sangue”. Di
tale frase, “Possessed” è la migliore esplicitazione possibile, anche se
la cupa ostinazione della madre di So-jin nel reputare la figlia una
santa in grado di operare miracoli, o quella della sciamana, la quale
attribuisce poteri divinatori e taumaturgici allo spirito che possiede
la bambina, sono meccanismi affini, che conducono al medesimo, terribile
risultato.
Lee lavora con efficacia sull’orrore quotidiano, ma sconta qualche
ambiguità e qualche ingarbugliamento di troppo nella seconda parte che,
pur non compromettendo la riuscita complessiva del film, gli impediscono
di raggiungere vette d’eccellenza. Buoni tutti gli attori, da Nam
Sang-mi ("She’s On Duty", "Dead Friend") che interpreta Hee-jin, alla
piccola Shim Eun-gyeong ("Hansel & Gretel") nella parte della bambina, e
ottimo il lavoro sul sound design di Kim Hong-jib, dato che la colonna
sonora è composta quasi esclusivamente da suoni, e la fotografia slavata
e invernale di Jo Sang-yun.
Come grida rabbiosamente la madre a Hee-jin, la figlia sarà anche
condannata a vivere nell’inferno dei non credenti (così recita il titolo
originale), ma se la religione diventa molesto assillo e fondamentalismo
demente, non è che si stia poi tanto meglio.
Voto: 6,5
(Nicola Picchi)