Titolo originale:
Cheun
Regia: Kongkiat Khomsiri
Cast: Chatchai Plengpanich, Arak Amornsupasiri, Sonthaya
Chitmanee, Jessica Pasaphan, Artthapan Poolsawad, Sikarin Polyong
Produzione: Thailandia
Anno: 2009
Durata: 101 minuti
In mare viene ripescata una valigia rossa, contenente un corpo fatto a pezzi. Il cadavere è quello di un occidentale, che abbiamo visto in procinto di intrattenersi con un ragazzino prima di essere assassinato da una figura che indossa una mantellina rossa. La vittima successiva è un insegnante di mezza età, che è solito abusare delle sue studentesse. Contemporaneamente Tai, poliziotto sotto copertura attualmente in prigione, ha incubi ricorrenti in cui rivede quella stessa valigia, e lo confessa ad una psicologa del carcere. Quando viene ucciso e mutilato il figlio di un importante uomo politico, il detective Chin fa liberare Tai, convinto che egli conosca il misterioso killer. Chin ordina a Tai, che ha già ucciso per suo conto, di rintracciare il colpevole entro 15 giorni.
Kongkiat Khomsiri, già collaboratore di Wisit Sasanatieng per il gotico
“The Unseeable” e tra gli autori di “Art of the Devil 2”, torna con “Slice”,
thriller sui generis che vale più per la riuscita ricostruzione
d’ambiente e per le annotazioni sociologiche a latere che per
l’iperbolica sceneggiatura, inverosimiglianza delle psicologie comprese.
Storia e scioglimento finale sono analoghe in maniera sospetta a quelle
del coreano “Rainbow Eyes”, ma Khomsiri non ha la languida propensione
per il mélò fiammeggiante di Yang Yoon-ho. Il suo è un cinema grezzo,
che poco si cura di bellurie estetizzanti ma che ripaga di eventuali
mancanze attraverso una ruvida libertà espressiva, alquanto opinabile ma
viscerale, d’impatto maggiore quanto più imperfetta. Tutta la messa in
scena è improntata in senso antinaturalistico, con forti richiami al
thriller italiano degli anni ’70, non è dato sapere quanto voluti e
quanto casuali. Abbondano decisi contrasti cromatici dal sapore onirico,
riservati alle scene d’ambientazione urbana. Khomsiri, anche direttore
della fotografia, si sbizzarrisce infatti con rossi intensissimi, verdi
marcescenti e viola tumefatti che rammentano i colori baviani
dell’Argento degli anni d’oro. Sempre al thriller di casa nostra
rimandano il groviglio di pulsioni sessuali irrisolte da “Psychopathia
sexualis” e, dulcis in fundo, la mantellina rossa dell’assassino,
analoga a quella sfoggiata ne “La dama rossa uccide sette volte” di
Miraglia. Tutti riferimenti probabilmente involontari, ma che danno
conto di un’atmosfera condivisa e di un mood riconoscibile.
Per il resto Khomsiri segue l’estro del momento, sparando in faccia la
luce ai suoi protagonisti nelle scene notturne, inventandosi una ripresa
in soggettiva di una folata di vento o coreografando una delirante
strage in un locale a luci rosse durante un live-show. Il tutto senza
risparmiarsi inevitabili crudezze grondanti emoglobina, o momenti
sfacciatamente lirici. L’indagine di Tai, durante la quale si troverà a
ripercorrere la propria adolescenza, vissuta in una zona rurale depressa
della Thailandia, è un viaggio a ritroso nel proprio passato. Una sorta
di “Stand By Me” con contorno di violenze familiari, in cui alle
“madeleines” proustiane si sostituiscono ripetuti abusi sessuali. Questa
parte, man mano che si dipanano ingegnosi flashback, anche generati da
una sigaretta gettata via distrattamente, è la più riuscita di “Slice”:
sentita raffigurazione dei caratteri, adeguata rappresentazione delle
tante prove iniziatiche, anche brutali, che costellano l’adolescenza e
partecipe descrizione dell’amicizia tra Tai e Nat.
E’ palese una feroce polemica con il subdolo colonialismo di ritorno che
ha ridotto la Thailandia ad un enorme mercato del sesso, in cui annoiati
occidentali sfogano pulsioni che tengono ben nascoste a casa propria. La
Bangkok di Khomsiri è una sorta di girone infernale, una giostra
lisergica di sesso a pagamento e corruzione, ma non per questo la
Thailandia dei piccoli villaggi è luogo idilliaco. La perdita
dell’innocenza di Tai e Nat si consuma rapidamente, tra padri alcolisti,
madri puttane e insegnanti pedofili, come in un romanzo verista
trapiantato nel sud est asiatico. Una volta fuggiti a Bangkok, Tai
troverà la sua strada attraverso la violenza, mentre Nat verrà avviato
alla prostituzione per soddisfare le brame di un turista di mezza età.
Certo, i presupposti psicologici sono fallaci, ma non più di quanto si
sia abituati a vedere nei corrispettivi americani, e su tutto l’insieme
aleggia più di un sospetto di omofobia, ma non c’è piglio moralistico
nelle azioni del killer, semplicemente la rivalsa anziché la supina
accettazione dello stato delle cose: Cappuccetto Rosso non solo uccide
il lupo, ma lo smembra e ne ripone ordinatamente i pezzi in una valigia.
Voto: 6,5
(Nicola Picchi)