Regia: Olatunde
Osunsanmi
Cast: Milla Jovovich, Elias Koteas, Will Patton, Corey Johnson,
Enzo Cilenti, Hakeem Kae-Kazim, Olatunde Osunsanmi, Alisha Seaton
Produzione: USA
Anno: 2009
Durata: 98 minuti
Abigail Tyler, di professione psicoterapeuta nella desolata località di Nome, in Alaska, ha perso il marito in circostanze misteriose. La dottoressa Tyler appare già sull’orlo dell’esaurimento nervoso, figurarsi poi quando i pazienti si presentano nel suo studio lamentando disturbi del sonno, che attribuiscono alle ripetute visite notturne di un gufo: il pennuto voyeur, come il Corvo di Poe, li osserva fissamente dal davanzale, senz’altro più reperibile ed economico di un busto di Pallade Atena, anche di seconda mano. E non è che l’inizio, dato che seguiranno inquietanti fenomeni di levitazione e scene di possessione, con contorno di fonemi pseudoesorcistici articolati nientemeno che nell’antica lingua dei Sumeri. La Tyler insiste, assistita dal suo scettico collega Abel Campos (Elias Koteas), ma mal gliene incoglie, dato che il mistero è destinato a rimanere insoluto.
Sarebbe ora di dire basta a questa invasione, ben peggiore di quella
aliena adombrata in questa deprecabile sciocchezzuola, di sottoprodotti
architettati da registi senza talento. Dopo l’ignobile “Paranormal
activity”, che ci ammorba col vetusto alibi del filmetto amatoriale (ma
è troppo facile), arriva sui nostri schermi “Il quarto tipo”, letargico
“mockumentary” che farà felici tutti gli spettatori ansiosi di
trascorrere un week-end nei pressi dell’Area 51. Ci sarebbe anche da
riflettere sull’aberrante distorsione operata da Hollywood su un genere,
quello del documentario simulato, nato con tutt’altri intenti, siano
essi squisitamente politici (Il Peter Watkins di “The war game” e
“Punishment park”), di riflessione sul mezzo cinematografico (”F for
Fake” di Welles) o esclusivamente ludici (“Forgotten silver” di Peter
Jackson). Oggi il fine del mockumentary, con la lodevole eccezione del
“District 9” di Neill Blomkamp, sembra sia esclusivamente quello di
spaventare i tredicenni ammassati nei multiplex con squallide operazioni
di marketing alla “Cloverfield”. E’ diventato, insomma, una sorta di
grimaldello universale per il genere horror-fantascientifico nonché una
legittimazione per mascherare la vacuità e l’inettitudine di
sceneggiatori e registi. Inoltre queste opere si basano su un grossolano
equivoco, ovvero su quello che l’immagine video, specifica del mezzo
televisivo, dia allo spettatore un’impressione di cosiddetta “realtà”,
quando al massimo può essere garanzia di “reality” e di finzione
manipolatoria.
Come sanno anche i sassi, il titolo “Il quarto tipo” allude alla
classificazione di J. Allen Hynek (che si fermava a tre) per quanto
concerne gli incontri con creature aliene, e indica un “alien abduction”,
il rapimento di un essere umano da parte degli extraterrestri. Il
regista Olatunde Osunsanmi, anche sceneggiatore, gioca sin dall’inizio
su un doppio registro, mettendo a confronto tramite split screen la
“vera” Abigail Tyler e la sua controparte funzionale (Milla Jovovich),
la quale ci avverte che il film si basa su eventi reali. Il fine
dovrebbe essere quello di aumentare la plausibilità degli avvenimenti,
ma la decisione di giustapporre frequentemente immagini video
“originali” e presunta ricostruzione, invece di immergere lo spettatore
nella vicenda contribuisce ad allontanarlo, rendendo la visione de “Il
quarto tipo” appassionante quanto una seduta dentistica. La
sceneggiatura, di sconfortante ingenuità, si limita ad inanellare
tediosamente i casi dei vari pazienti della sventurata psicologa, i
quali si risolvono sempre in maniera rovinosa, anche se il fondo del
barile viene raschiato con la comparsa dell’esperto di lingua sumera,
che improvvisa una lezione di fanta-archeologia ad uso e consumo degli
sprovveduti villici di Nome. Gli alieni di Osunsanmi sono infatti
malvagie entità paralovecraftiane, i cui fini sono e rimangono
imperscrutabili. Ci sarebbe anche da aggiungere che per il regista la
professione dello psicologo conserva un improbabile alone
mistico-stregonesco, dato che i suoi laureati da baraccone ricorrono
cialtronescamente all’ipnosi durante le sedute.
Regia narcolettica e abuso di split screen completano il quadretto,
facendo rimpiangere enormemente il riuscito “Progeny” di Brian Yuzna,
elegante variazione sul tema dei rapimenti alieni. Milla Jovovich
strabuzza vanamente gli occhioni, mentre appare più convincente la sua
anonima controparte, la “vera” Abigail Tyler, che pare una catatonica
Madeline Usher rediviva. L’unica promessa mantenuta è quella fatta nella
scena iniziale: Milla, uscendo dalla nebbia come in un vampiresco film
della Hammer, ci avverte che il film è “estremamente disturbante”. E in
effetti, sprecare un’ora e mezzo di tempo è cosa che può disturbare
parecchio.
Voto: 4
(Nicola Picchi)