Regia: Fabrice Du Welz
Cast: Emmanuelle Béart, Rufus Sewell, Julie Dreyfus, Petch Osathanugrah,
Amporn Pankratok, Josse De Pauw
Nazione: Francia
Anno: 2008
Durata: 96 minuti
Janet e Paul hanno perduto il loro figlioletto durante lo Tsunami. Una sera Janet crede di vederlo in un video ripreso in Birmania da un'associazione umanitaria. Decide così di partire alla ricerca del bambino, affidandosi ad un trafficante locale, Thaksin Gao. Ma giunti sul luogo i due si troveranno davanti alla dura realtà di un mondo assai più selvaggio di quanto avessero immaginato, e le loro speranze si trasformeranno nell'arma più potente da cui finiranno per essere feriti.
Vinyan, ovvero il fantasma del corpo della madre. Fabrice du Welz apre questo delirio
visionario molto astutamente con l'immagine della bellissima Emanuelle Bèart. E su questo
volto devastato dal dolore che a mano a mano si trasforma in follia, lo spettatore può
agilmente seguire le tracce dell'antico mito della Grande Madre. Paul segue Janet come un
bambino attraverso la giungla senza avere mai la forza di opporsi, le si affida e finisce
fagocitato. I bambini del villaggio si concedono un uccisione rituale e un pasto totemico,
per poi celebrare alla fine il corpo della madre per eccellenza, Janet che, annullata dal
dolore della perdita si trasfigura in archetipo, la Grande Madre, appunto.
Tutto qua. Qualsiasi tentativo di vedere altro si frantuma nell'inesplicabile paralisi
narrativa che da subito uccide ogni pensiero logico, nello spettatore come nei
protagonisti. E se in "Calvaire" almeno la follia aveva una struttura e una
forma che si traduceva in semplice delirio, qua il tutto si sfilaccia per lasciare il
posto ad immagini archetipe di natura primordiale, che evocano angosce ancestrali, per
fortuna sopite da anni di psicoanalisi. Il Cuore di Tenebra del regista belga sprofonda da
subito nella totale assenza di spessore narrativo, e nella vacua percezione di una verità
al di là da venire. Nessuno crederebbe neanche per un istante che un bambino intravisto
in un video da una madre completamente annullata dalla sua perdita possa esser un elemento
attendibile. Ma il povero marito/figlio decide di crederle e per questo paga il prezzo
dell'annullamento, il destino ultimo di chi vive nell'inconscio e fantasmaticamente anela
al ritorno nel corpo della madre. Corpo che visivamente ci viene offerto con generosità,
a simboleggiare un'opulenza che ci si immagina di certo fantasmatica. La Madre si sa
soddisfa ogni bisogno dei suoi figli, e in assenza della possibilità di accudirli,
credendoli perduti impazzisce di dolore. Ma forse la possibilità di essere assorbiti
dall'inconscio è quella a cui anela Paul dapprima e in certa misura lo spettatore,
giustamente rapito dall'avvenenza della Bèart. Nessuno sano di mente rifiuterebbe una
congiunzione con un corpo simile. E' la madre e la donna, archetipo e figura di
riferimento per gli uomini di tutte le culture, che ci si offre e rifiutare è
impossibile. Ma se da una parte il tutto è raccontato attraverso il tessuto sfilacciato
della perdita di lucidità, è pure vero che una piccola luce a indicare una direzione
avrebbe di certo giovato alla messa in scena confusa e pasticciata che si finisce per
trovarsi davanti.
Du Welz allestisce una bella ragnatela, entro cui finisce impigliata come prima cosa la
logica, poi subito la prudenza, infine la razionalità e la vita. I due sperduti
protagonisti in balia di un dolore, comprensibile certo, ma non per questo giustamente
meritevole di una scelta distruttiva quanto inutilmente sacrificale, finiscono impigliati
nella ragnatela narrativa e nell'ambizione supponente di una significatività altra, che
pare affliggere il regista. E se lo spettatore può giustamente invocare il fascino della
giungla e del magnifico corpo della madre afflitta, il regista non ha nessuna scusante: il
suo racconto è sfilacciato e inconcludente. E non basta un archetipo superbamente
rappresentato a salvare il tutto da un'ovvietà avvilente.
Voto: 5
(Anna Maria Pelella)