Titolo originale: Grindhouse
- Death proof
Regia: Quentin Tarantino
Cast: Kurt Russell, Rosario Dawson, Vanessa Ferlito, Jordan Ladd, Rose
McGowan, Eli Roth, Marley Shelton, Michael Parks, Zoe Bell, Tracie Thoms, Sydney Tamiia
Poitier, Michael Bacall, Omar Doom, Tim Murphy, Quentin Tarantino, Monica Staggs, Helen
Kim
Soggetto: Robert Rodriguez, Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Effetti speciali visivi: John McLeod
Effetti speciali sonori: Greg Zimmermann
Fotografia: Quentin Tarantino
Montaggio: Sally Menke
Scenografia: Steve Joyner, Caylah Eddleblute
Costumi: Nina Proctor
Produzione: USA
Anno: 2007
Durata: 127 minuti (90 edited version)
Per la dj più al top di Austin, Jungle Julia (Sydney Tamiia Poitier), l'ora che si
avvicina al tramonto costituisce il momento migliore per cercare un po' di relax insieme
alle sue due migliori amiche, Shanna (Jordan Ladd) e Arlene (Vanessa Ferlito).
Le tre ragazze non passano certo inosservate quando si lanciano alla conquista della notte
da Guero's o al Texas Chili Parlor; non tutti però si limitano a guardarle e magari a
desiderarle più o meno a distanza.
Tra chi le osserva c'è anche Stuntman Mike (Kurt Russell), un ormai non più giovanissimo
ribelle carico di cicatrici e dallo sguardo liricamente ammiccante.
Mike è seduto al volante della sua possente auto da stuntman e attende solo di poterle
attirare nella propria trappola fatta di lamiere contorte e sangue schizzato.
Alcuni mesi dopo lo ritroveremo ancora in azione, come sempre in cerca di giovani vittime.
Nel 1971, Sergio Leone, impegnato sul set di Giù la testa, disse che il
cinema deve essere innanzitutto spettacolo, perché è questo che il pubblico vuole... e
lo spettacolo più bello è quello del mito.
Frontiera, eroi senza nome, sangue, onore.
Vendette.
Erano gli anni dello spaghetti-western, delle pianure abruzzesi truccate da deserti
messicani con tanto di cactus e vecchi poncho confezionati fuori Roma; erano gli anni di
Bob Robertson, Montgomery Wood, Leo Nichols e Lee B. Weaver.
Il nostro piccolo Eldorado tricolore; un paradiso domestico che
alloccorrenza sapeva anche colorarsi di nero, di atmosfere cupe degne dei migliori
milieu marsigliesi fino a proliferare di inganni, assassini, ladri e psicopatici
doppiogiochisti.
E così, tra un Sentenze di morte ed una Trilogia del dollaro, grandi
artigiani della pellicola come Di Leo e Deodato davano vita al poliziottesco,
allexploitation, a Milano trema: La polizia vuole giustizia e a
quel certo slasher che tanta fortuna arrise ai giovani Hopper e Craven.
Oggi, a distanza di ormai più di trentanni, in molti sembrano aver voluto tagliare
i ponti con quelleredità, rinnegando Cannibal holocaust in favore di un
certo intellettualismo ostentato che fa tanto moda, costume e bisogno sociale: non
cè più spazio per Ugo Piazza, Sartana o Tuco. Nessuna stella da sceriffo per
Trinità e Bambino, nessun distintivo per il Commissario Tanzi.
Scivolato miseramente nel dimenticatoio pubblico delle trasmissioni notturne, il B-Movie
allitaliana non ha mai smesso, però, di affascinare e fare scuola, di evolversi
fino ad approdare ad un così tanto vagheggiato ritorno allonesta genuinità degli
esordi, fino ad innalzare i suoi artefici a veri e propri eroi.
Lenzi, Fulci, Bava, Margheriti, i fratelli Castiglioni, Freda, Salce, Massi, gli stessi Di
Leo e Deodato. Ma non è tutto merito nostro anzi, forse noi non abbiamo proprio fatto
nulla, presi comeravamo nel dimenticare limportanza di frequentare i
generi per ripiegarci invece in un ghetto intimista, se mi è possibile prendere in
prestito le recenti parole del grande Pupi Avati. È nel più vasto e fruttuoso panorama a
stelle e strisce, infatti, che la nostra produzione di serie B ha trovato una
nuova quanto prodigiosa rivalutazione (o rivitalizzazione?), innestandosi con arguta
sapienza sui canoni e sugli stilemi del cinema di genere americano: dapprima con Ridley
Scott ed il suo fortunato Alien (ricco di citazioni e rimandi al meno noto Terrore
nello spazio, del nostro Mario Bava), poi con Tim Burton (che dice di ispirarsi in
ogni sua inquadratura a Lenzi e a Bava) per concludere, infine, con i ben più redditizi
Robert Rodriguez (che ha dato vita al cosiddetto burrito-western) e Quentin Tarantino, da Pulp
Fiction fino a Kill Bill, passando per quel piccolo gioiellino di Jackie
Brown.
E proprio firmato Tarantino è questo A prova di morte, primo
frammento del ben più ambizioso progetto Grindhouse (ma è meglio
non dilungarsi troppo sulle decisioni che hanno portato al suo sezionamento), un double
feature che si pone lobiettivo di resuscitare le atmosfere putride delle
vecchie sale malconce e dismesse dove venivano proiettati proprio quei film a suo tempo
giudicati estremi (appartenenti perlopiù a generi come il giallo allitaliana, il
cannibal movie o il blaxploitation americano) e di cui i due autori, Rodriguez e
Tarantino, si sono sempre dichiarati fanatici; Death proof, ovvero: tanto sangue,
belle donne e macchine potenti e veloci.
Insomma, tutto ciò di cui un uomo che si rispetti ha bisogno per vivere bene e morire
meglio.
Un po Vanishing point, un po Dragstrip girl e Dirty Mary, Crazy Larry (pellicola da noi conosciuta come Zozza Mary, Pazzo Gary), A prova di morte non è, tuttavia, la blanda ripetizione in copia carbone delle
sgualcite pellicole trash-sessiste anni 70: Death proof è semplicemente un
capolavoro.
Su questo non possono esserci dubbi.
Senza star qui a sentenziare sui quei paragoni assolutamente fuori luogo con gli
altri Tarantino che la stampa, in mancanza daltro, sembra tanto
divertirsi a creare: sarebbe come tuonare sugli ultimi De Palma riferendosi esclusivamente
a Scarface o, peggio ancora, declassare The house by the cemetery con lo
sguardo rivolto allo Zombie per eccellenza.
Quanto meno azzardato, direi.
Non che Death droof manchi dello spessore di cui si compongono le vicende dei
fratelli Vega o della Sposa in tutina gialla e nera; vi prego, non incappiamo
nellerrore di considerare questo slasher vintage come un banalissimo esercizio di
stile messo in moto da un regista viziato e sovraccarico di aspettative: la sceneggiatura
è una portentosa combinazione di classe e filologia pulp, con un intenso e
surreale dialogo tra i sedili di una Volvo rossa fra tre belle ragazze i cui discorsi
vertono su sesso, uomini e droga (qualcosa che ricorda molto da vicino lo scambio di
battute tra Jackson e Travolta in Pulp Fiction).
Un meccanismo che si consolida ed amplifica nel suo (auto)citarsi, nel rincorrere a bordo
di una Dodge Charger nera la spettacolare ossessività - compulsiva degli hot road
dannata, nellomaggiare a più riprese il parallelo universo degli stuntman,
viventi icone dimenticate dei rombanti thriller su quattro ruote.
Unaccorata nostalgia pronta ad esplodere esteticamente davanti alle super
protagoniste - amazzoni in perfetto stile Russ Meyer, con una tumida Vanessa Ferlito
impegnata in una lap dance da capogiro con tanto di mini t-shirt omaggiante LUltimo
buscadero di Peckinpah.
Unappassionata devozione che trova piena libertà nel volto sfregiato di Stuntman
Mike, nel suo analcolico Virgin Caipirinha, nello sguardo sadico e violento di Kurt
Russell, iper-cinetico (redivivo) e cattivo quel tanto da renderlo irresistibile; un villain che mancava da ormai troppo tempo sugli schermi edulcorati dei nostri squallidi multisala!
Inseguimenti, corpi smembrati, cinismo.
Tutto è così retrò.
Le finte bruciature della pizza sono retrò, le immagini talvolta sfocate sono
retrò, la sbavatura dei colori è retrò, la pellicola graffiata, la dettagliata regia di
Tarantino, la fotografia (di cui, fortunatamente, si è occupato lo stesso Quentin, con
risultati più che notevoli), laccostamento di tonalità acide e forti con talune
altre più morbide e tenui, i titoli di testa e di coda sono retrò.
La musica anche lo è, pescata a piene mani da qualche impolverato jukebox degli anni
70, con brani di Joe Tex, T-Rex, Smith, Eddy Floyd, Willy DeVille, Ennio Morricone e
la sua Paranoia prima, composta proprio in quegli anni per L'uccello dalle
piume di cristallo, del nostro Dario Argento.
Probabilmente (e prevedibilmente) molto altro ancora si dirà e si scriverà su A
prova di morte, su questultimo prodotto marchiato Tarantino: qualcuno ne è
esalterà la componente visiva, altri invece punteranno le loro dita inquisitrici sulla
furbizia e sullopera di riciclaggio che lo stesso regista del Tennessee ha messo in
atto.
A noi non interessa.
Non interessano le chiacchiere da gossip, né tantomeno i sedicenti commenti di quei
critici riscopertisi improvvisamente nostalgici.
Se soltanto la metà di quei prodotti spacciati per originali riuscisse a sfiorare la
metà dellinnovazione di questo primo episodio di Grindhouse e se
laltrettanta metà di questi riuscisse ad esaltare lo spettatore almeno come la
metà di questo film riesce a fare beh... sarebbe un mondo completamente diverso.
Voto: s.v. (o forse 10, forse ancora 9...)
(Stefano Ricci)