La maschera del Demonio

Regia: Mario Bava
Cast: Tino Bianchi, Clara Bindi, Andrea Checchi, Arturo Dominici, Ivo Garrani, Enrico Olivieri, Mario Passante, Antonio Pierfederici, John Richardson, Barbara Steele
Soggetto: Nikolaj Vasil'evic Gogol' dal racconto "Vij"
Sceneggiatura: Ennio De Concini, Mario Serandrei
Produzione: Italia (B/N)
Anno: 1960
Durata: 84 minuti

TRAMA

Nel XVII secolo, in Moldavia, la strega Asa viene condannata a morte insieme al suo amante. Due secoli più tardi, il dottor Chomas e il suo assistente Gorobec sono diretti a Mosca per assistere ad un congresso scientifico e durante il loro viaggio incappano in Katja, una giovane ragazza, discendente della strega Asa.

RECENSIONE

Nel panorama della cinematografia italiana esistono autori declamati che rimarranno, con ogni probabilità, impressi nella memoria comune (oltre che sulla celluloide) in eterno. Esistono poi personaggi ingiustamente dimenticati, nonostante il loro contributo alla settima arte sia stato fondamentale. Fortuna che all’estero (Stati Uniti e buona parte dell’Europa) si ricordano ancora di un “piccolo e modesto” ometto che, da abile artigiano qual era è riuscito a trasformarsi in geniale artista, approfittando della metamorfosi che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, coinvolse la società italiana, scandita - in buona parte - dalla nascita e diffusione della televisione. Il tanto discusso elettrodomestico accelerò il processo di laicizzazione mostrando a un pubblico in piena fase di ripresa post bellica e conseguentemente altamente ricettivo, un costume più spregiudicato e disinibito. L’opera di Mario Bava, attivo come regista dal 1960 al 1980, si inserisce proprio in questo contesto: dall’avvento della televisione di Stato al proliferare delle tv private, dalla produzione di melodrammi sentimentali imperante fino agli anni Cinquanta all’avvento dell’erotismo e della violenza che domineranno le pellicole degli anni Sessanta e Settanta. Cambiava il popolo, il modo di pensare e cambiavano le componenti delle storie che coinvolgevano il popolo stesso; una trasformazione veicolata soprattutto da due generi che conobbero il loro apice commerciale proprio in quel periodo: la commedia e l’horror. A Bava spetta, con unanimità di pensiero, la responsabilità dell’invenzione del cinema gotico italiano, e il primato (insieme a Riccardo Freda) per aver infranto il divieto di produrre pellicole appartenenti a un genere non gradito al regime fascista. Se è pur vero che il maestro ligure (sanremese per la precisione) attinge a piene mani dalle gesta di produzioni estere - quelle a lui contemporanee dell’inglese Hammer, e quelle più classiche della Universal degli anni Trenta e Quaranta - è altrettanto vero che riesce a permeare ogni sua opera con uno stile unico e originale, che nega il carattere di puro intrattenimento posto all’origine, grazie al connubbio di tre elementi differenti: il fantastico, l’ironia e la ricerca visiva, miscelati a una grande preparazione tecnica acquisita in anni di attività all’Istituto Luce, dapprima nel ruolo di operatore, poi come direttore della fotografia e in seguito come capo del reparto trucchi, imponendosi come realizzatore di effetti speciali. Tutta la sua abilità è condensata in questo monumentale esordio: “La maschera del demonio” sottolinea anche la sua capacità di stravolgere un’idea di partenza, di rielaborare una sceneggiatura che, tratta da un racconto di Gogol carico di ironia, atmosfere surreali e atteggiamenti fantastici, si trasforma in un condensato di crudeltà, ribrezzo e macabro. Avvolto da un paganesimo atavico ammantato di Romanticismo risulta totalmente estraneo all’opera originaria di Gogol. Unico elemento a permanere è quel senso di precarietà tipico delle rappresentazioni della nobiltà russa che avrà in Checov uno dei suoi massimi cantori. Non mancano i riferimenti al Dracula letterario e all’eterna contrapposizione tra Bene e Male, ma l’elemento centrale ruota attorno alla minaccia al tabù morale, prodotto dal “mostro” sotto forma di provocante fanciulla, attraverso comportamenti sessuali giudicati dalla società (e a maggior ragione da quella di quarant’anni fa) devianti e perversi, creando un effetto di repulsione-attrazione per mezzo di immagini “scandalose”. Tema che resterà predominante per quasi un ventennio, almeno finché il pubblico non risulterà sufficientemente smaliziato e avrà bisogno di ben altri incubi e paure per poter essere appagato in modo soddisfacente. Ad incarnare questo seducente terrore troviamo una giovane quanto affascinante Barbara Steele, che con i suoi particolari lineamenti, avrà un ruolo fondamentale nella nascente poetica della “ginecofobia”, come è stata definita da alcuni esperti del cinema di quel periodo. La struttura della pellicola è contraddistinta da una sorta di dicotomia riscontrabile sia nella caratterizzazione dei personaggi (su tutti, ovviamente, il doppio ruolo della protagonista), sia in quella dei luoghi: la contrapposizione tra la locanda (e il villaggio che essa rappresenta) e il misterioso castello è un altro chiaro rimando alla letteratura Ottocentesca. Ma Bava, con un’intuizione geniale, si diverte a mettere in discussione certe convenzioni, associando, per quasi tutta la durata del film, il male alla luce - basta pensare al volto della strega Asa, nella sequenza iniziale che mostra la sua esecuzione, illuminato da un bagliore quasi “sacro” - paragonato al buio che avvolge i sarcedoti - che starebbero invece a simboleggiare il bene. Il castello e i giardini che lo circondano appaiono in evidente disfacimento e simboleggiano il degrado morale degli stessi personaggi. Gli altri immancabili ambienti, comuni ad ogni classico film horror, sono il bosco dalla fitta vegetazione che avvolge la carrozza su cui viaggiano i due dottori, e il cimitero, luogo sconsacrato, da cui risorgono le vittime della strega per compiere il suo volere. Bava condisce tutto con un bellissimo bianco e nero che gli permette oltretutto di mostrare quello che, fino a prima di lui, veniva considerato non mostrabile, restituendo al genere fantastico quella fisicità che gli appartiene di diritto. Il bianco e nero assurge a nuovo mezzo comunicatore mantenendo immutato, al contempo, il fascino del suo gusto retrò. Per accorgersi della grandezza di quest’opera è sufficiente recuperare il dvd edito dalla RHV e ammirare, oltre al film, il documentario “Mario Bava: Maestro of the Macabre”, ascoltare le testimonianze di registi come Tim Burton, John Carpenter o Joe Dante, che tessono giustamente le sue lodi, così come nessun altro in Italia ha mai fatto sufficientemente e, magari, commuoverci per un passato remoto che non tornerà più.
Voto: 8,5
(Davide Battaglia)