Concorso di poesia horror.
Acre colore
persistente il sapore
pioggia d'autunno
che scioglie, ma non si arrende.
Suicidio mentale
come grida di alberi spogli.
Il viso della Luna,
bianco di giovane vedova,
assiste indifferente.
Strige crudele e antica,
progenie infausta e dannata,
banchetta fiera sul figlio
del mio disperato seno.
Urlo tra le tenebre,
ma sono striduli buboli,
quasi d’uccello rapace.
Solo adesso m’è chiaro,
maledetto sia il mio becco
che si nutre ancora
del sangue del mio sangue.
Stanotte non partorisci,
Musa dei marciapiedi,
non mi fai bere
dal tuo seno pendulo?
Perché quest’oggi
non ti concedi a me?
Forse non soddisfo più
le voluttuose labbra?
Crudele megera
io ti imploro:
preservami dall’unico
orrore che conosco:
quello squarcio di vuoto,
quell’abisso di desolazione
che agli occhi del poeta
è il foglio intonso!
Corpi adagiati sopra gelidi marmi
il viso crudele e il gelo nel cuore
lo stregone usa parole come armi
tormentando nemici morti da ore.
Un arcano rituale riapre la breccia
ago e filo rammendano il tessuto
e un soldato ucciso da una freccia
dalla punta rinasce sopravvissuto.
Di disperazione vorrebbe gridare
invece nuova aria deve respirare.
Se attraversare vuoi la via senza ritorno,
dovrai serbare una moneta nella bocca muta,
affinché lui possa condurti dove non v’è il giorno.
Soltanto allora la tua anima caduta
potrà solcare immune la livida corrente,
e il vecchio dalla maschera canuta
la scorterà laggiù, tra le nebbie d’Acheronte.
Scorre viscida
sul tuo corpo legato,
tra i bei seni.
Serpe di ghiaccio
l'albo ventre addenta,
sudi terrore.
Veleno in te.
Ascolto estasiato,
rantoli sordi.
Guidati dai demoni
della fame e della sete,
invisibili nella notte,
cani ringhianti e ululanti
attraversano la città
abbracciata dalla nebbia,
in cerca del mio cuore.
Tu, immagine, mi hai scosso
dipingendo un pentacolo
nel profondo rosso
Aspra cigola un'altalena
nell'infernale scenario
questa è la pena:
l'anima mia nel mezzo urlante
da neri cavalli inseguita
si prostra per una fine straziante
Visione ultima del supremo
re degli inferi
maligno sguardo ultraterreno.
Straziami, Angelo nero,
prendi ciò che c’è in me,
abusa della mia umanità.
Violenta la mia tenera,
docile carne,
riducimi a brandelli,
brandisci feroce
l’ascia dei miei peccati.
Sul mio stipite
non scorrerà il sangue
d’un gracile agnello,
attenderò il tuo arrivo
tra le mie mura.
Compi dunque il tuo lavoro:
rendimi felice,
strozzami il respiro.
Ecco a te fanciulla cara,
la mia merce colorata
per scaldarti qui, stasera.
Sii prudente nella scelta,
rosso il sangue che zampilla,
blu che scende sulla gola.
Ma se scegli altri colori,
bianco è il dorso delle mani,
in attesa dei tuoi doni.
E se abbassi gli occhi obliqui,
già si appressano ai tuoi piedi,
molli schiere di lombrichi.
Non ho più tempo: fuggito con l’ultimo abbraccio
che ho voluto regalarti prima di andare.
Non pensavo avrebbe fatto male,
ma il dolore non mi ferma,
prolungo il mio abbraccio.
Non ho più tempo, tra poco sarà l’alba,
lascio andare il tuo corpo
che scivola lento ai mie piedi:
il mio morso non ti ha sorpreso.
Vado senza voltarmi indietro.
Tardi ti odiai
bruttezza nuova ma antica.
Tu eri fuori e io dentro.
E là non ti cercavo.
Mi gettavo
sulle tue orrende passioni.
Tu non eri con me ma io ero con te.
Non mi hai chiamato
e il tuo silenzio squarciò il mio udito.
Hai mandato oscurità
e il tuo grigiore
ha dissipato la mia vista.
Mi toccasti
e ora riposo in pace.
Una miriade di gatti neri
là sul cornicione
nella notte
miagolano alle stelle,
anime perse
che intrecciano le code.
Seguono sui tetti,
tra cuniculi
di camini accesi,
il cammino che li porterà
a svanire tra le ombre
alle luci dell'alba.
Sia che tu taccia,
taci per odio.
Sia che tu parli,
parla per odio.
Sia che tu corregga,
correggi per odio.
Sia che tu ti vendichi,
vendicati per odio.
Sia in te
la radice dell’odio,
poiché da questa radice
non può procedere
se non il male.
Odia e fa ciò che vuoi.
Non so se sia vero,
ma quel bicchiere s’è mosso, l’ho visto!
illuminato da un piccolo cero
ora di sorpresa e terrore il mio animo è misto.
Mi giro, mi rivolto, sconvolto
vorrei tanto non crederci.
tremante cerco di imporre un saluto,
sperando non sia un arrivederci.
La tua morte è come fossi nascosto nell'armadio.
Io ancora vivo e tu già morto.
Non mi chiamerai più col nome che mi hai sempre dato;
non mi parlerai più nello stesso modo astioso
né continuerai a piangere di quello che ti faceva piangere.
Bestemmia, rattristati, non pensarmi!
Il tuo nome sia sempre la parola familiare di prima: gufo.
Tic, tac, cra-cra-cra,
la testa vuota di chi sa.
Tic, tac, ah-ah-ah,
mai più la bocca aprirà.
Tic, tac, oh-oh-oh,
seduto affianco io ti sto.
Tic, tac, guarda un po’!
A casa tua io me ne vo.
Tic, tac, eh-eh-eh,
un bimbo piange, sai perché?
Tic, tac, ué-ué-ué,
presto sarà lui qui con te.