Concorso di poesia horror.
Un anno e ancora brucia
e fa male la tua assenza.
mentre festose le luci del Natale imminente
insultano il vuoto dentro di me.
Sfioro la fredda pietra,
sento il tuo sussurro fangoso.
Le tue dita ossute su di me
lasciano solchi dolorosi.
Cerco il tuo orrido abbraccio,
lo stesso,
e tu, ritornato a me,
stringi.
Ma non è amore
È fame
Si tinge di rosso la luna al tramonto,
e già scuote il cielo, le mani sul mondo.
È pallida e fredda, spietata e silente,
non c’è soluzione alla furia incombente.
Tra poco la notte ghermirà la mia mente,
le membra deformi sulla preda innocente,
e quando la sete di sangue avrò vinto,
sarà ancor più rossa, la luna, là in fondo.
Via quella luce
Scorreva lento il sangue tra i pali
saliva il tormento dei poveri mortali
Nulla placava l’odio nel mio cuore
l’anima urlava di brama, d’ardore
Via quella croce
Ecco, il lamento di uomini e animali
è questo il momento degli attimi fatali
Accoglimi muto, non serve parlare
ti darò l’assoluto, tu lasciami entrare
Via, la tua voce
Vomito mille dolci parole d'amore,
grumi di desiderio ti lordano il viso.
Putrefatte catene frenano l’ardore,
carnale prigione allontana ogni riso.
Passionali i vermi anelano sentimenti,
dolce Angelica perdona ogni sua sorte.
Piango per morbo d’infestati momenti,
mostruosi i semi agognano solo morte.
Sgombra la mente
e nel buio ingoia,
aspetta piangente
la mano del boia.
Guarda in silenzio
la folla ora in festa,
tra fiumi d’assenzio
cadrà la tua testa.
La fine t’aspetta
al ceppo di legno
e scende l‘accetta
non appen’ dato il segno.
E quella man non può attendere
il prossimo appello
e quel cuor non può cedere
al tuo sguardo d'agnello.
E infine vecchio
trapassai i miei giorni
e giacqui immobile
in un sudario d’ombre
Dalle mie morte spoglie
si separò un velo
e mi scoprii cosciente
sotto candida Luna
Alla Sua nivea Luce
anelai all’istante
Ma poi m’accorsi incredulo
dei figli di Caronte
che con strazianti artigli
mi volsero alle Ombre
ad un eterno Inferno
alla mia nuova dimora.
Un fruscio,
uno stormire sinistro,
uccelli che si alzano in volo.
Poi rumori.
La paura che aumenta
nell’oscurità ininterrotta del bosco.
Una sagoma
appena accennata
avanza nel lucore lunare.
Si avvicina
e mentre il cuore galoppa
vi affonda le mani,
assaporando i miei battiti
Ninnananna ninna oh
all’inferno brucerò,
dormi bene mia diletta
ti terrò sempre stretta.
Or che Sonno si fa eterno
e sei più fredda dell’inverno,
guardo ‘l tuo occhio fisso
mentre stringo il crocifisso,
ma per me non c’è speranza
dopo tutta la mattanza.
Ora tremo, rido, canto,
la voce mista al pianto:
ninnananna ninna oh,
all’inferno brucerò.
Oltre i muri
avvinghiati dall’edera,
nelle stanze vuote
della vecchia dimora,
echeggia il tuo lamento.
Tu che amasti colui
che ti diede la morte,
sola, nel luogo che accolse
i tuoi casti sospiri, resti:
esangue dissolvenza.
Dannata, dall’amore respinta,
fatale ti fu il mesto incedere
oltre l’amara soglia.
Nella penombra d’un fuoco morente
schiaccio le blatte, e i topi di fogna,
tra vecchi reclusi e freschi di gogna.
Qui, sottoterra, nessuno vi sente:
quand’è che punge ciò che m’abbisogna
prendo con forza le vostre vergogna.
Forse dell’anima basta l’incenso;
alle carni vostre io, sì, ci penso!
Al bacio delle larve
rintocca l'eco
fra le spighe ricurve
d'un cieco
e molle strisciare
sopra le carni
d'ossa in calcare
dove orde di scarni
vermi in festa
banchettano per ore
con quel che resta
d'un cuore
che ad ogni luna
cantava alla Falce
e alla notte bruna
il suono dolce
d'un ramo
mischio all'imbrunire
lasciato gramo
al suo nero marcire.
Salice e corda
S’inebriano, i corvi,
degli occhi tuoi.
Libera e fiera, nei giardini del paradiso perduto
Indomita e altera, dinanzi al maschio caduto
Lussuria e malizia mi avete per sempre marchiato
Immonda nequizia, nella mente dell’uomo accecato
Tremenda sarà la tua sorte, già segnato è il tuo fato
Ho nel nome la morte, sono il demonio incarnato
Crociate di lucciole
in un chiuso vaso di cielo,
spettri
nelle cavità della notte.
Schioccano rami
sotto le urla del vento -
inesorabile
il fuso trascina la vita,
si sfilaccia il tramonto
in crepe sanguigne.
La corda dondola,
sola nel vuoto -
ridono corvi fra i rami.
Sarà brace di donna
sugli altari delle Moire.
Gusto il sapore di mandorle amare,
cancello il sale di troppe lacrime,
bevo ricordi per soffocare il dolore.
Occhi vitrei di Medusa mi fissano,
sono strappati all’amato tuo volto,
mai più faranno in pietra altri cuori.
Sei stata la mia vita e il mio veleno,
in memoria tua avvicino l’antidoto,
morbose ali di oblio mi accolgono.
Di notte
vengono a trovarmi
spettri contorti
di mondi distorti.
Poi, all’alba,
sembrano lasciarmi.
E con il nuovo giorno
la luce riappare dintorno.
Ma ogni sera
si rinnova il martirio
di incubi nuovi
e mai conosciuti.
Non c’è via d’uscita
dall’orrore notturno
sepolto per sempre
nel mio animo inquieto.
Il pasto delle dita
si spinge oltre le nocche:
il crocchiare passa il polso.
Tintinnano le unghie,
sputate nei bicchieri.
Di terra lordi
i moncherini, gracidano
di ghiaia sotto i rotti denti.
Ritornare: non avere e
non essere nessuno.
Graffia e ghigna la coscienza
suicida e lauto
è l'esizial banchetto.
Perché, Luna, ti sfilacci
in grigi tentacoli
di terra morta?
E’ forse l’Ora?
E si fa carne l’ultimo verso del Velenoso Libro:
‘... ma col passar di strani eòni anche la Morte può morire.’
Uomo, patetico Re del mondo,
non hai più alcun mondo
da governare.
E’ giunta l’Ora.
E persino il Libro dei Libri
scompare.
Sorella Invidia e sorella Ignoranza
usano il Fuoco
per estirpare la Scienza
Usano il fuoco
come perfida scusa
per scacciare Colei
che della Natura
è Candida Sposa
M’aggiro silente
in groppa ad un ratto,
dal primo contatto
porto morte imminente.
Il cerusico non mente
al paziente infetto,
il respiro nel petto
sarà presto assente.
Non v’è cura efficiente
dell’umano inetto,
son il male perfetto
dell’Antico Serpente.
Or non più banchetto
o nelle corti feste,
inginocchiati al mio cospetto,
son Madama Peste!
Ricopio sulle bende
le mie poesie migliori.
L'inchiostro schiva l'ago, ammirato
dal deserto esposto del petto:
i seni vizzi, la pelle
essiccata, grinzoso sudario sulle costole.
Ti chiesi il cuore,
concedesti solo carne,
ti predai dell'eternità.
Sfioro la guancia, cava
nel teschio,
fremi, sussulto,
m'illude ingannevole
il solletico.
Silenzioso rimango ormai solo,
le mie braccia inerti stese al suolo,
chiuso nelle prigioni della mia anima,
Che marcisce insieme alle mie fragili ossa.
Loro non vogliono lasciarmi,
loro sanno bene come tormentarmi,
aspettano di divorare l’essenza umana
E ogni resistenza contro di loro sarà vana.
Dolci sospiri,
avide carezze,
candide mani
ricolme di morte.
Solamente un morso,
uno soltanto,
per diventare
eternamente vivo,
eternamente morto.
Sono morto per mano di un Maestro,
ma i suoi insegnamenti tardano ad arrivare.
Non ho guida
solo una sete più forte della fede
più ricercata di un orgasmo.
Sono qui, lontano dalla luce,
senza le istruzioni della tenebra.
E aspetto,
aspetto la morte
ché ogni briciolo di orgoglio mi è stato divorato.
Venite, cacciatori, a mettere fine ai gesti atroci
che compio
e di cui io per primo sono la vittima.
Cenere di morte
sanguisuga di sorte
Riposa In Pace
una dannata vita
nella malefica clessidra.
Eccolo il tuo cuore,
un concentrato sanguinolento di emotività.
Carne sudicia che boccheggiava al ritmo di un moto impresso.
Era responsabile dei miei sentimenti,
delle veglie e del dolore.
Lo stringo nella mano, massa informe che gronda sangue
e sorrido al male che fece al mio.
Il tuo cuore,
ora, non ferirà più.
Yannafeh
il divoratore di occhi
mi ha trascinato nella tana,
un cucchiaio
per celebrare
e dipingere
la mia agonia.
Ora
imbratta la tela
di olio e sangue,
disegna orbite vuote
e dolore.
Yannafeh
degusta il mio sguardo,
quadro di morte e malattia.
Yannafeh il divoratore
vomita lacrime rosse
che non gli appartengono.
Infilò l'angolo, la fessura,
s'unì alla polvere in incruento sposalizio.
Crebbe in tenebra,
mise zampe, montò corpo canceroso, purulento,
Arrampicò losanghe,
il copriletto.
Naso chiuso, bocca aperta.
Aracnide sprofondato in gola:
divorate le viscere,
mendicato l'addio.
Al dondolio di tre dadi:
«Dispari o pari?»
Crogiola l’indugio,
la morte rulla il numero:
«666»
«È il mio»
il prescelto son’io.
Dormi. Io sogno
d'ucciderti. Sudario,
ora il lenzuolo.
Invero credete al Mimmo del Letto?
O stolti! Non v’è l’omin maledetto!
Nudo e d’iride privo
deh!, sgozza ogni cattivo...
...Dio mio! È ai pié del mio letto!