Titolo originale: GP 506
Regia: Kong Su-chang
Cast: Cheon Ho-jin, Jo Hyeon-jae, Lee Yeong-hoon, Lee Jeong-heon, Sin
Hyeon-tak
Produzione: Corea
Anno: 2008
Durata: 120 minuti
Una pattuglia di soldati sudcoreani viene inviata durgenza ad un posto di guardia sul confine, che da alcune ore non risponde agli appelli lanciati via radio. Una volta entrati, trovano un solo superstite, coperto di sangue, in mezzo ai corpi mutilati dei suoi commilitoni. Mentre tra i soldati si verificano improvvisi scoppi di violenza, lispettore militare Noh ha solo una notte di tempo per risolvere il mistero.
La Zona Demilitarizzata Coreana (DMZ) attraversa il 38° parallelo, dividendo la penisola
in due parti: lunga 248 km e larga 4, è in realtà il confine più militarizzato del
mondo in cui ad intervalli regolari, sia dal lato della Corea del Nord che da quello della
Corea del Sud, sorgono dei posti di guardia i cui occupanti sono obbligati a mandare dei
messaggi ogni mezzora. Ma la DMZ è anche un luogo, o meglio un non-luogo,
naturalmente simbolico, ferita irrimediabile e segno tangibile di una nazione divisa,
cicatrice mai rimarginata che risale ai tempi della guerra fredda. Spazio tanto più
metaforico quanto tristemente reale, è già stato esplorato dal cinema coreano in due
grandi film, ovvero il thriller JSA di Park Chan-wook, ambientato a
Panmunjeom, e The coast guard di Kim Ki-duk, in cui la lacerazione da
orografica si faceva esistenziale, portando lindividuo alla violenza e alla follia.
The guard post di Kong Su-chang rilegge il tema in chiave horror, creando una
struttura circolare in cui la violenza appare inevitabile, un cerchio che nessuno ha la
forza o la volontà di spezzare. Cupo e claustrofobico, appesantito da frequentissimi
flashback ma sostenuto da una robusta struttura di impianto classico, il film è
principalmente unanalisi della follia collettiva. Il virus della rabbia che infetta
i soldati uno dopo laltro, conducendoli allautomutilazione e
allomicidio, è manifestamente allegorico, e questo contribuisce in maniera
significativa a rendere più gravoso lo svolgimento narrativo. Latmosfera di
paranoia diffusa e di minaccia imminente è pesantemente debitrice ai classici del genere,
in primis La cosa di Carpenter, palesemente evocato in un paio di scene, ma
lalternarsi dei diversi piani temporali rischia di confondere lo spettatore, mentre
la metafora singolfa ed il film comincia a girare a vuoto. Le due storie ripetono
sostanzialmente lo stesso plot, sovrapponendosi luna sullaltra e componendo un
disegno in cui il passato è lo specchio del presente e, probabilmente, anche del futuro
dato che la violenza è immediatamente rimossa (i soldati sono colpiti da amnesia) e
quindi destinata ad autoreplicarsi proprio come il virus che ne è la causa scatenante.
Questa duplicazione impedisce qualsiasi tipo di approfondimento dei personaggi ma, anche
se questo costituisce un ulteriore motivo di confusione, risulta coerente con gli assunti
di fondo, dato che le vittime della violenza sono interscambiabili e non abbisognano di
alcuna individualità definita. Nonostante gli strombazzamenti pubblicitari, il tasso di
gore si mantiene nella media. Malgrado limpeccabilità della confezione (ottima la
plumbea fotografia di Kim Sung-hwan) e la buona prova di tutti gli attori, in particolare
il Cheon Ho-jin di Crying fist e A dirty carnival, rimane
tuttora maggiormente convincente e più stilisticamente compiuto il precedente film
di Kong Su-chang, lhorror R-Point (2004), che si occupava di una
pattuglia di soldati coreani in Vietnam, e di cui The guard post potrebbe
sembrare a prima vista una sorta di remake.
Voto: 6,5
(Nicola Picchi)